Fedele alla forma breve del narrare, Daniela Gambaro racconta in Verdissime (Nutrimenti 2024) undici vicende che hanno come protagoniste altrettante figure femminili; l’aggettivo del titolo allude tanto all’età delle giovani donne quanto all’isotopia che accomuna le loro metamorfosi a quelle del mondo delle piante: nel racconto che dà il titolo alla raccolta, ambientato durante una seduta di pilates, Vanessa appare «acerba e verdissima come un albero giovane» mentre Giuditta, di poco più grande, sembra «un giovane albero che ha già assunto una forma più adulta, più definita» (p.152). La prima chiama in causa la determinazione della betulla, la seconda le contorsioni dell’ulivo con una figuralità di tipo botanico ricorrente nei testi di alcune narratrici contemporanee. Gli aspetti caratteriali e i diversi destini delle ragazze si dipanano grazie a pochi, allusivi particolari che devono rispondere a una logica verticale nella quale ogni cosa scivola come su un piano inclinato. Come nella migliore tradizione nordamericana, la short story di Gambaro si nutre di vuoti, omissioni, non detti: ciò che l’autrice sa, resta sommerso rispetto a ciò che al lettore è dato sapere e che deve coagularsi attorno a un congegno narrativo perfetto.

Con Verdissime l’autrice rende omaggio all’epoca della vita sospesa tra infanzia e adolescenza, evocata a partire dalla poesia in esergo, Mia giovinezza di Ada Negri: l’immagine della donna allo specchio restituisce la dialettica fra identità e differenza («Sei tu, ma un’altra sei. […] Un’altra sei, più bella»). Con questo stesso sguardo teneramente retrospettivo, Gambaro racconta le molteplici forme e i diversi momenti della vita di un’adolescente in quella manciata di anni decisiva nell’evoluzione da bambina a donna; suggestiva, e di per sé esemplare dell’intero libro, la figura di Alice in Ossessioni che non sapevo di avere, una sorta di Dafne contemporanea la cui fatica di crescere e di amare assume le forme di una (onirica) metamorfosi arborea.

In L’anno del bambino l’anonima io narrante ricostruisce e supera un trauma familiare che pesa enormemente nel rapporto con i genitori: la perdita di un fratellino appena nato, vero e proprio tabù domestico, rivelato dalla nonna. Lungi dal provare dispiacere per il fratello mai conosciuto, la ragazzina misura tutto il peso dell’odio nei suoi confronti considerandolo la causa delle tristezze materne e della mancanza di spensieratezza familiare: «bastava un raffreddore e per loro suonava un campanello d’allarme» (p.52). Inoltre con il bambino-fantasma la protagonista non può sperimentare quelle cruente ma naturali lotte tra fratelli – la «doccia di saliva» a esempio – che accadono sotto i suoi occhi tra l’amica Lisa e Luca:

Io sapevo che Lisa […] in quei momenti lo odiava, era un sentimento passeggero, destinato ad annacquarsi nel mare di bene che provava per lui. Io invece al bambino non volevo bene mai, se pensavo a lui era per odiarlo e basta, anche se non mi aveva mai fatto una doccia di saliva. (p.53).

Del resto, sarà proprio grazie all’intraprendenza di Lisa che la protagonista potrà dare un nome al fratello, andando a visitare in motorino la sua tomba in un pomeriggio assolato, avvinghiata al busto dell’amica, sfidando i divieti dei genitori. Così qualche mese dopo, proprio nel giorno dei morti, la ragazzina si sentirà finalmente libera dei pesi familiari e, arrampicandosi sulle scalette del colombario per rendere omaggio al fratello Stefano, di quel peso sgrava finalmente anche i genitori: «Ero altissima. Non avevo paura» (p. 70).

Primo bacio tematizza, fin dal titolo, un momento molto atteso nell’immaginario di un’adolescente: Gambaro ne decostruisce il mito incastonandolo nel racconto del rapporto ambivalente – tra complicità e conflitto – di due sorelle, Beatrice e Lea, in montagna con i genitori per un weekend sugli sci. Il racconto è affidato alla minore delle due, Lea, che rimarca le differenze di carattere tra lei e Beatrice, della quale subisce le azzardate decisioni – come quella di uscire di nascosto dall’hotel per raggiungere in discoteca un gruppetto di ragazzi conosciuti la mattina sulle piste. È lì, nello spazio caotico e rumoroso del locale, che Lea rimane “impigliata” nel dialogo con Jochen a proposito della «timidezza delle chiome», ossia dell’abitudine degli alberi di crescere rispettando lo spazio vitale tra gli uni e gli altri. La narrazione del loro bacio, il primo per la quindicenne Lea, è esemplare della modalità narrativa inattesa di Gambaro: quel momento, anziché dar luogo a una scena prevedibile, si consuma nella concitazione di una serata rovinata dalla sventatezza di Beatrice. È solo il giorno dopo, tra la neve delle piste e le ritrovate confidenze tra sorelle, che quell’attimo ricompare, flebile come un’occasione irrimediabilmente perduta:

E anzi avevo la sensazione (esatta, a tanti anni di distanza) che quel bacio fosse andato perduto tra il fare e il sentire, come chi avvicinando un fiore al naso per inalarne l’aroma se lo vede togliere di mano, magari per uno scherzo, e pur cercandolo per mari e per monti non lo ritrova più. (p. 133)

Verdissime è una raccolta sapientemente costruita su alcune ricorrenti caratteristiche formali: la regolare alternanza tra racconti in terza e in prima persona, l’acuta ricostruzione del mondo interiore delle giovani protagoniste e, infine, una solida verosimiglianza. Tuttavia, la centralità delle adolescenti non sottrae spazio ad altre figure femminili più mature, appena scorciate ma narrativamente piene: si pensi a Renata in Rimedi per il singhiozzo e ad Axenia, la colf che compare nel delicatissimo Linda e che, infatti, conquista la sua autonomia narrativa nell’ultimo e più lungo racconto, Quale mondo. Anche il paesaggio assurge in alcuni racconti al ruolo di personaggio secondario: Gambaro sa restituire la caratura dei luoghi, la consistenza degli oggetti, la densità delle atmosfere con pochi, efficaci tratti nei quali gli “esterni” sembrano mantenere un’eco della pianura veneta in cui è nata e cresciuta:

Usciamo raramente dall’intrico familiare di strade sterrate, orti, zone incolte e vegetazione spontanea che racchiude le nostre case, soprattutto d’estate. I tre mesi senza scuola cominciano con l’acquisto dei sandali di plastica, che ci lasciano sulla pelle un disegno al negativo, più chiaro, color carne, nelle zone protette, e scuro, terroso, nel resto del piede e su fino al polpaccio. […] Conosciamo le piante che pizzicano e quelle che si possono succhiare. Distinguiamo gli insetti pericolosi. Sappiamo scalare un albero, saltare un fosso, segnalare un pericolo con un fischio. Ma dove inizia l’asfalto le nostre doti e abilità sono inutili, le nostre conoscenze scarse, i nostri piedi con i ghirigori terrosi sospetti. (p. 91, p. 93)

Dunque, dopo la prova d’esordio  – Dieci storie quasi vere (2021) – Gambaro si conferma come una fra le autrici di racconti oggi più consapevole in Italia;  tre possono essere considerati i punti di forza su cui ha costruito la sua raccolta: l’adesione profonda alla forma breve del narrare i cui modelli nordamericani (Carver, Cheever, Munro, Berlin, Paley per citare i prediletti) emergono nella stringatezza stilistica e nella resa dei personaggi; l’attenzione a un universo femminile acerbo e in evoluzione, rappresentato con piena indipendenza dagli stereotipi e dalle banalità che molta women’s fiction cavalca; infine, l’impiego di un linguaggio asciutto, essenziale e al contempo evocativo.


In copertina Thomas Dewing, In the garden

URL: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Thomas_Wilmer_Dewing_-In_the_Garden-_1892-94.jpg

D. Gambaro, Verdissime, Roma, Nutrimenti, 2024, 216 pp., € 18.