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#PremioBg25 – Muster. Una giovinezza fantastica di Bruno Pischedda

Proseguiamo con la presentazione dei libri finalisti del Premio Narrativa Bergamo 2025. Gli incontri con gli autori si tengono alla Sala Galmozzi di Bergamo per cinque giovedì di fila alle ore 18. Dopo Dario Voltolini, oggi è il turno di Bruno Pischedda.


Credo ci sia un sentimento al cuore della generazione nata all’incirca tra metà anni Cinquanta e metà anni Sessanta, la convinzione di aver vissuto la propria vita in sintonia con quella della nazione, almeno fino alla fine del secolo. L’infanzia in concomitanza con una ri-nascita del paese dopo la distruzione della guerra; l’adolescenza attraversata con l’entusiasmo di un boom che lasciava margini all’iniziativa, all’esplorazione libertaria dei margini; l’età adulta in un mondo improvvisamente globale, che apriva porte anche laddove non si pensava di trovarle. È forse per questo che Bruno Pischedda, docente universitario classe 1956, consegna alle stampe Muster. Una giovinezza fantastica (Zacinto 2024), un romanzo picaresco che segue tra salti e divagazioni la vita di un personaggio sostanzialmente coetaneo, dall’adolescenza fino alla senilità, raccontando una vita che, nella sua particolarità, vorrebbe farsi speculum di un certo modo di crescere nell’Italia del secondo Novecento. E in particolare, di crescere in provincia. (Si dovrà dire che non è questo il primo romanzo di Pischedda, né il primo che affronta simili temi, visto che Muster arriva a chiudere una trilogia aperta da Com’è grande la città, del 1996, e rilanciata con Carùga blues, del 2003).

Il protagonista e narratore è Umberto Beretta, detto Berto, detto Peretta, ma soprattutto da un certo punto in poi detto Muster, un giovane di Cesate, piccolo comune dell’hinterland milanese che si sta trasformando sotto la pressione dell’emigrazione interna, l’arrivo dei meridionali che giustifica la costruzione del villaggio INA e di altre brutture architettoniche che allargano i confini del vecchio borgo e creano un nuovo paesaggio semi-urbano, dove il più brutale cemento e i capannoni industriali convivono con le tanto citate “groane”, con cascine quasi sempre abbandonate e qualche sparuta villa, tra boschetti e campi coltivati. Quello di Berto è, però, innanzitutto il racconto di una piccola comunità, di giovani e meno giovani, che gravitano intorno alla latteria di Scordo, vi fanno base per scorribande di ogni tipo: sentimentale, professionale, latamente avventuroso e non di rado anche criminale.

Umberto Beretta, detto Berto, detto Peretta, detto Muster. Si capisce ben presto come quello di Pischedda sia un romanzo in cui l’eccentricità schietta e ridanciana tipica di una certa idea di vita provinciale presta il fianco all’aneddotica («Sono senza numero le strade intraprese da un nomignolo», 75). Quell’aneddotica che è tanto prodiga di soprannomi, titoli chiamati a celebrare momenti dotati di una tale forza da ottenere i gradi della memorabilità. Come nel caso dell’episodio che è valso a Berto il suo nuovo nome, quando, una sera in cui alla latteria erano arrivate due ragazze forestiere, si era rivolto a una delle due dicendole «hai un leggero strabismo, ma ti sta bene, è affascinante», credendo di farle un complimento e senza accorgersi che quel difetto era dovuto a un occhio di vetro. Solo un mostro avrebbe potuto dire una cosa simile, e da quel giorno, tra risate di scherno e di imbarazzo, il Peretta diventò per tutti Muster.

Ma non sono solo i momenti eccezionali, le singolarità che si stagliano sul piattume della vita ordinaria a far da perno al racconto del narratore. Anche la quotidianità alimenta l’epos personale e collettivo che il romanzo costruisce, perché a caratterizzare quei giorni spesso uguali sono oggetti, abitudini, linguaggi che, a uno sguardo retrospettivo, si caricano di un valore individuale sì, ma anche culturale, storico, sociologico. E infatti Muster, che pure è un aspirante matematico (destinato a una carriera internazionale che lo allontanerà definitivamente dal microcosmo cesatese), deve più di qualcosa alla sapienza sociologica del suo autore, come dimostrano battute fulminee o più distese considerazioni di carattere consuntivo.

Il fatto è che tutti si rifacevano ad altro e tutti affatturavano, piegando a singolarità inconfondibile ogni moda soverchiante. Sedici chilometri ci separavano da piazzale Roserio, dove girava il tram, diciotto da Piazzale Kennedy, che introduceva alle grandi fabbriche metallurgiche e metalmeccaniche, e ogni passo compiuto verso la metropoli produceva una lega incerta di scimmiottature sottocosto e renitenze originarie, slanci verso il nuovo, l’inaudito, il mirabolante, però accoppiati a reclusioni e bizzarrie tenaci. Ne veniva un intreccio, in sostanza, una formula mista grazie alla quale noi eravamo noi e altri lontani da noi, ma senza rinnegare davvero il brevetto, o se vogliamo il codice ruspante che presiedeva agli azzardi emulativi così come ai comportamenti più abituali (47).

Vivere in uno spazio di confine – tra metropoli, periferia industriale e campagna agricola – apre il ventaglio delle possibilità. E si potrebbe dire, infatti, che ad animare le vite di Muster e dei vari Peppo, Luciano, Momino, Billa, Tazio, Ruspi, ma anche di Mirella o Anna Braghieri, è proprio un sentimento di possibilità, una sensazione piuttosto irriflessa che le esperienze vadano vissute, o anche solo “tentate”, perché se ne potrebbe cavare qualcosa di buono, magari anche poco (perché poco è quel che basta a questi personaggi), magari in modo rocambolesco, ma secondo una inconfessabile e ingenua fiducia nel domani che non fa distinzioni di classe e che rende le disavventure di questi personaggi divertenti, ma anche distanti.

Come detto, di questo bizzarro e chiassoso microcosmo il Peretta-Muster è voce narrante e cantore, testimone di prima mano che racconta di sé e degli altri per consegnarne l’epopea a futura memoria. Come lo Zeno di Svevo, il Peretta, ormai anziano e un po’ immalinconito, dà sfogo ai ricordi affidandosi liberamente al flusso della memoria, tra lunghe immersioni, improvvisi lampeggiamenti, deviazioni e ritorni: «È il modo in cui funziona la memoria, quando non si è più giovani: lo zampillìo inaspettato di figure e circostanze inspiegate, imbarazzanti, dalle quali non si riesce a prendere congedo; dalle quali dipende un altro Io, che siamo stati e ancora attende spiegazione: l’Io del raffronto, della misura» (45). Il Peretta non sembra saper bene quale sia il punto d’arrivo del suo racconto; sa soltanto che vale la pena seguire la memoria nei suoi imperscrutabili percorsi, perché permetterà di ritrovare caratteri e colori di un passato che affiora a tinte forti – forse troppo –, che rende ogni personaggio una macchietta, un caratterista che ha un ruolo ben definito nella commedia dell’arte che si recita quotidianamente alla latteria di Scordo. Fanno eccezione a questa regola Muster e la sua antagonista femminile Mirella, come si dirà a breve.

Prima è opportuno soffermarsi brevemente su un aspetto non secondario del romanzo di Pischedda, ovvero la lingua. Lo stile è infatti fluviale e ricercato, multicolore e gaddiano, sebbene ricorra in maniera preponderante a termini e immagini del registro basso, e non di rado del basso-corporeo (lo anticipa bene la scena di apertura del romanzo: «Avevo vent’anni, forse neanche, diciannove, diciotto, quando nel parcheggio alberato davanti alla latteria di Scordo qualcuno mi lasciò un dono maleodorante sulla moto», 7). L’intenzione è quella di comporre una lingua che adotti dell’oralità la disposizione irregolare degli accenti di frase e la disponibilità a rivedere continuamente i piani sintattici, ma al tempo stesso facendo leva su una ricercatezza lessicale, e anche su un’invidiabile fantasia metaforica che poco si sposano con l’istintività del parlato. Muster sa muoversi con disinvoltura tra i gerghi, da quello più connotato della mala di piccolo calibro (testoriana, verrebbe da dire) a quello più astratto della logica matematica. Perché in fondo, benché ami presentarsi «mezzo goffo e mezzo gaglioffo» (153), il Peretta è un personaggio ben più sapiente e colto di quanto il suo ostentato “politicamente scorretto” non riesca a rivendicare. E il suo racconto è molto più studiato di quanto non voglia sembrare.

La narrazione infatti ha un proprio palinsesto, per quanto instabile e non sempre evidente, ed è la figura di Mirella, ragazza sfuggente, che per anni tiene in scacco i sentimenti del protagonista, impedendogli di capire quali promesse di futuro contengano la duratura frequentazione e le estemporanee concessioni carnali. Mirella, che pure si trova sempre a proprio agio in un universo prevalentemente maschile e maschilista, tutto dominato dagli impulsi e dalla legge dell’azione-reazione, è il personaggio che forza il ricordo e lo apre alla riflessione, alla meditazione profonda (addirittura sulla religione!). Non solo perché, a distanza di tempo, chi narra ancora non sa interpretare certi atteggiamenti, certe parole sospese, l’indole oracolare di Mirella, ma anche perché quei momenti di incertezza, di incomprensione e dubbio offrivano la sponda per una più profonda comprensione di sé e del proprio destino.

Nelle ultime pagine del romanzo questo destino si srotola rapidamente e ci accompagna in un momento vicino ai giorni nostri. Il tempo eroico della giovinezza appare ormai lontano e induce il narratore a considerazioni nostalgiche, rese un po’ meno scontate dal ricorso a una metafora matematica che restituisce il senso di un racconto corale e aneddotico, in cui «i dettagli superano l’intero, così come la somma delle parti è sempre inferiore alla cifra originaria, e la cifra stessa è tanto spesso incomprensibile a chi non ne abbia condiviso le minime cicatrici». È forse per questo che noi che leggiamo, a prescindere dalla nostra appartenenza generazionale, restiamo sempre al di qua della soglia dell’empatia, spettatori di uno spettacolo colorato e ruspante, ma che in definitiva non ci riguarda.


Bruno Pischedda, Muster. Una giovinezza fantastica, Zacinto edizioni, Milano 2024, 220 pp. 20,00€