A quali storie dobbiamo prestare ascolto, quando decidiamo di raccontare? Paola Caridi, giornalista che per anni ha intessuto storie dal Medio-Oriente – prima dal 2001 al 2003 al Cairo, poi per quasi altri dieci anni da Gerusalemme – parte da questa questione, ricapitolando la propria esperienza di testimone e chiedendosi: è davvero tutto qui, quel che si poteva raccontare?

Frutto di una lunga riflessione, Il gelso di Gerusalemme. L’altra storia raccontata dagli alberi (Feltrinelli 2024), ha subito un’accelerazione dopo il 7 ottobre 2023. In questi giorni di intreccio tra quello scenario e la nostra quotidianità, le parole di Paola Caridi invitano a un ripensamento del nostro stare al mondo e darne notizia. Il suo è l’auspicio di un giornalismo nuovo, radicalmente diverso, che si faccia atto insieme decolonizzatore ed ecocentrico. Attorno ai corpi vivi e morti della guerra, cosa sfugge alla nostra attenzione? Quei corpi, vite radicate in un paesaggio dalla storia millenaria, sono certamente umani, ma intrecciati ad altri vegetali, piante che costruiscono un luogo e lo rendono storia.

La distruzione delle vite umane è nel contempo distruzione dell’elemento natura, una feroce mutilazione e distruzione anche di ciò che la parola giornalistica – e non solo – esclude, come non pertinente. È proprio da questa “non pertinenza” che Caridi avvia la sua riflessione, ricostruendo la storia geopolitica di Gerusalemme, di Gaza, della Palestina, ma anche del Libano, dell’Egitto, della Turchia e dell’Iraq, attraverso la storia della sua vegetazione: nelle radici di quelle piante è inscritto il destino di impoverimento della terra a seguito del sopruso coloniale, o di distruzione della stessa per l’avvento di conflitti, o dello stupro del paesaggio per interventi politici avventati e propagandistici.

La narrazione inizia con l’immagine di un moncone di gelso, là dove la giornalista aveva lasciato «dieci anni prima un albero rigoglioso, frondoso, che si allargava con i suoi rami oltre il muretto di cemento» (p. 11). Ormai ridotto ad un brandello di sé, esso diviene «il memento di un albero che aveva ben oltre cento anni di vita. Probabilmente un secolo e mezzo. Centocinquanta anni: l’intero percorso – umano – della questione israelo-palestinese, a partire dall’immigrazione sionista fino all’oggi» (p. 12).

Storia umana e storia vegetale si intrecciano nel descrivere un paesaggio stratificato e poroso, in cui gli alberi raccontano tanto quanto, se non di più, delle voci umane. Il moncone del gelso di Gerusalemme racconta, così, la Nakba, la cacciata e fuga dei palestinesi nel 1948; allo stesso modo, la decimazione dei sicomori nella striscia di Gaza, un tempo fiorente centro commerciale e culturale, è testimonianza di

[u]n vero e proprio ecocidio, secondo la definizione usata da Forensic Architecture, l’agenzia di ricerca di base nell’Università Goldsmiths a Londra che indaga con strumenti interdisciplinari la violenza statale e d’impresa. Nella sua inchiesta relativa ai primi sei mesi della guerra su Gaza, Forensic Architecture ha stabilito che Israele aveva distrutto il 40 per cento della terra agricola destinata alla produzione di cibo (p. 36).

La guerra colpisce umano e non-umano in maniera indistinta, superando quelle barriere morali che la stessa Bibbia, le cui radici affondano in quella terra, riporta: «Quando cingerai d’assedio una città per lungo tempo, per espugnarla e conquistarla, non ne distruggerai gli alberi colpendoli con la scure; ne mangerai il frutto, ma non li taglierai, perché l’albero della campagna è forse un uomo, per essere coinvolto nell’assedio?» (Deuteronomio, 20, 19) (pp. 35-36).

L’operazione di Caridi si inserisce nel fertile campo ecocritico che cerca di ascoltare la “voce” del vegetale, renderlo soggetto narrativo e riconoscerne una piena agency. Non è un caso che nella narrazione trovino posto estratti dell’opera di Serenella Iovino, una delle voci più eminenti degli Ecocritical Studies, nonché studiosa che per prima ha contribuito, con Serpil Oppermann, allo sviluppo del cosiddetto material ecocriticism. Cosa c’è, del resto, di più corporeo di un albero spezzato come il gelso, o di una terra depauperata da una monocoltura imposta, come nel caso degli aranci in Libano ad opera del colonialismo francese?

Insieme all’ecocritica, il libro di Caridi evoca il campo degli studi postcoloniali: il vegetale si intreccia, infatti, alle voci di artisti, poeti e scrittori, uomini e donne, che mirano a decolonizzare la cultura dei luoghi di appartenenza, facendo della natura la veste esistenziale di cui il dominio capitalistico e colonialistico li ha privati, o almeno ha tentato di farlo. Il vegetale è espresso nei versi del poeta palestinese Najwan Darwish, La donna dall’altra parte: «Una donna sale dalla memoria / da un giorno di là da venire / per nominare gli alberi per te. […] Fai veloce, donna – / prima che vengano gli uomini a tagliare gli alberi» (p.17). Ma anche nelle parole dello scrittore kenyota Ngugi wa Thiong’o, che nel suo romanzo d’esordio, Weep Not, Child, scrive: «È vostra [la terra, ndr] da governare e coltivare in serenità, offrendo riti sacrificali solo a me, vostro Dio, sotto il mio albero sacro» (p. 22). O nei documentari Una manciata di terra (2008) della regista palestinese Sahera Dirbas, e La Strada dei Samouni di Stefano Savona (2008). La stessa classificazione di Linneo viene presentata come espressione del capitalismo, tanto che è «da anni sottoposta a critiche e revisione da parte di chi sostiene sia necessaria una decolonizzazione anche in ambito botanico» (p. 23).

Quali storie raccontare, allora? A cosa prestare attenzione? Paola Caridi risponde decentrandosi in prima persona, assumendo un punto di vista inedito, che tuttavia pare l’unico percorribile nella complessità attuale. Le storie vegetali possono intrecciare quelle di altri umani, come Umm Ahmed, la donna che Caridi conosce al mercato di Gerusalemme, sulle spalle il sacco di cicoria frutto del lavoro dei propri campi. O il comitato Save Lifta, composto da israeliani e palestinesi, uniti nel combattere la messa a bando, proposta dallo Stato di Israele, di abbattere l’antico villaggio palestinese e costruirvi case a schiera di lusso. Anche qui, «[s]ono gli alberi, nel caso di Lifta, a informare (e raccontare) della terra su cui l’umano è passato, si è insediato, è stato cacciato, ha cacciato, si è in altro modo insediato» (p. 85).

Il sostrato naturale di ciò che possiamo raccontare sta nelle radici di quelli che Caridi chiama “alberi-guida”. Basta poco, in fondo: «È tempo di imparare dagli alberi, e chiedere perdono» (p. 133).


Paola Caridi, Il gelso di Gerusalemme: L’altra storia raccontata dagli alberi, Milano, Feltrinelli 2024, € 17, 160 pp.