Sapere come finisce guasta il piacere di leggere un libro: si tratta di un cliché ampiamente sfatato da varie ricerche ma duro a morire. Lo scrittore olandese J. Bernlef, pseudonimo di Hendrik Jan Marsman (1937–2012), prova quanto possa valere la lettura di un libro di cui si sa già la fine, col suo Hersenschimmen (1984), tradotto per la prima volta in italiano da Stefano Musilli per Fazi Editore lo scorso novembre. Dal paratesto si capisce che il protagonista e focalizzatore (più che narratore) del romanzo, Maarten, ha l’Alzheimer, e che il suo veloce svanire arriva come un’amara sorpresa per lui e Vera, sua moglie da cinquant’anni. Conoscere l’argomento del libro rende il mondo descritto – insieme alle parole usate per descriverlo – più caro e carico di significato. L’ironia drammatica, il fatto che chi legge sa quello che sta succedendo a Maarten molto prima di lui e Vera, con la consapevolezza che il mondo descritto sta per scomparire, fa sì che la nostalgia prenda subito possesso della pagina.
«Forse è per via della neve che la mattina mi sento già così stanco. Vera no, lei ama la neve. Trova che non ci sia niente di meglio di un paesaggio innevato. Quando le tracce dell’uomo scompaiono dalla natura, quando tutto si trasforma in una distesa bianca e immacolata: che meraviglia! Lo dice quasi in estasi. Ma qui non è una circostanza che duri molto. Già dopo qualche ora si vedono impronte di scarpe e di pneumatici ovunque e le strade principali vengono sgombrate dagli spazzaneve» (p. 7).
Le prime parole del romanzo introducono lo sfondo continuo del libro, l’odiata neve, l’inverno che non accenna a finire. Si comprende subito che la neve è dentro e fuori, i fiocchi cadono nel cervello di Maarten, facendo sparire dettagli e differenze. È un inverno simile a quello di Eternal Sunshine of the Spotless Mind. E, non a caso, la prima parola del libro è ‘forse’, seguita poco dopo da ‘non capisco’: le certezze si stanno già sgretolando davanti agli occhi di Maarten. La neve si mangia tutti i colori, ma anche il calore dei ricordi: «Attizzo un po’ il fuoco, così si alza una bella pioggia di scintille. Forza, volate su per la canna, uscite dal comignolo. Fuori i fiocchi vi spegneranno tutte con un sibilo. Puntini neri sul tetto imbiancato: non resta altro di quelle scintille cadenti» (p. 18). La scena si ripeterà più tardi nel libro, quando i puntini neri saranno i resti delle foto che Maarten non ha riconosciuto e bruciato. Lui non si accorge della ripetizione, ma chi legge sì.
Nelle prime pagine il mondo è pieno di dettagli, di oggetti con un nome, una funzione, un posto e un passato preciso, inseriti in ambienti familiari e protetti. Nella vita di Maarten c’è una certezza, un punto fermo, l’amore di e per Vera, quando la guarda e quando la vede senza guardare:
«Vera. I suoi gesti ancora veloci, che s’interrompono bruscamente; la concentrazione con cui tende le dita affusolate e stacca una foglia morta da una pianta per poi esaminarla da ogni prospettiva, come se volesse accertare la causa del decesso; il modo in cui arriccia le labbra mentre riflette o scuote delicatamente la testa quando legge qualcosa che le piace. Sono l’unico a poter vedere in lei tutte le donne che è stata. Allora a volte la tocco, e per un attimo le accarezzo tutte insieme. È un sentimento. Un sentimento che solo lei può suscitare in me: nessun altro» (p. 11).
Vari paragrafi iniziano col nome di Vera, che determina quel che significano le cose di per sé mute e impersonali. Insieme hanno dato a tutte le cose il loro significato e il loro posto, iniziando dagli albori del loro amore:
«A posteriori ricordi soltanto una specie di febbre, un fuoco interiore che rendeva speciale ogni aspetto, le cose più banali in cui ti imbattevi camminando insieme a lei, che osservavate e commentavate insieme […] Era un desiderio, quello di assorbire tutto quanto lei guardava, non dimenticare nulla, nemmeno un istante di quel mondo che all’improvviso era diventato il suo: freddo, limpido, imperscrutabile» (p. 32).
Non dimenticare nulla, sono parole espresse nella piena convinzione del passato, con l’amara certezza della perdita nel presente. Maarten e Vera abitano da tempo negli Stati Uniti, lontani dal loro paese natio e dalla loro lingua, ma pienamente a casa. L’abitudine fa sì che vedano senza guardare, attraverso la memoria. Solo con la malattia, quando stenta a riconoscere le stanze e gli oggetti a casa sua, Maarten comprende pienamente il ruolo dell’abitudine in quel che si vede ogni giorno: la mattina in cucina non trovi il caffè perché lo guardi, ma perché l’hai visto senza guardare. La vita di Maarten diventa invece, sempre di più, un guardare senza vedere. Il suo sguardo assomiglia all’obiettivo di una macchina fotografica, come quella che ha scattato le foto che gli vengono mostrate per aiutarlo a ricostruire e ricordare il suo passato e presente:
«L’obiettivo non distingue l’importante dal superfluo, il primo piano dallo sfondo. E in questo momento io stesso sono come un obiettivo. Registro, ma niente e nessuno si avvicina, balza in avanti; nessuno mi tocca con un gesto o un’espressione sorpresa, e questi edifici, queste strade e queste piazze esistono in città che non ho mai visitato e che non visiterò mai» (p. 75).
Robert, il cane, fiuta per primo lo stato di confusione di Maarten, ma per i lettori i segni ci sono da subito. Il rapporto con lo stesso oggetto può cambiare nello spazio di una pagina. Maarten non riconosce il libro che sta leggendo, così come il biglietto del bus della settimana scorsa che funge da segnalibro e segnamemoria.
Velocemente le dimenticanze s’aggravano. Durante una passeggiata si dimentica del cane e torna a casa da solo, ore dopo. Rientra al lavoro pur essendo pensionato da anni, chiede di persone che sono morte da tempo, non riconosce quelle che vede quasi quotidianamente. Vera si dispera quando capisce che suo marito non è semplicemente sbadato o confuso, e proprio lui cerca di consolarla con parole che tra loro erano sempre certezze. Colui che sta sparendo le dice che almeno sono insieme e che lui è con lei qualsiasi cosa accada; frasi convenzionali che si dicono per proteggersi, ma che non fanno che peggiorare la disperazione per il veloce evaporare del mondo condiviso, che è come dire del mondo così come Vera lo conosce. «“Certe cose non si scordano mai”. “No”, confermo. “Restano con te per sempre”» (p. 72).
Lo sgretolarsi della memoria è descritto da dentro, con Maarten come focalizzatore, ma è proprio il rapporto tra dentro e fuori a diventare labile e la lingua (del corpo e della mente) instabile:
«Mi lavo i denti e nel frattempo cerco le parole, una formula per esprimere quello che provo. Come se dentro di me ci fosse qualcuno che ricorda un’altra casa, i cui spazi sono talvolta completamente sfalsati rispetto a questi. Le stanze dovrebbero essere certezze assolute. La loro successione andrebbe fissata una volta e per sempre. Una porta deve potersi aprire tranquillamente. Non con ansia e apprensione perché non sai cosa ci troverai dietro» (p. 50).
Maarten perde la padronanza della lingua, e quella perdita si riflette nello stile del libro, nelle frasi che diventano sempre più brevi, incoerenti, inconcluse, confuse. Accade gradualmente, ed è parte della maestria di Bernlef, che il dileguarsi del mondo si traduca anche in un venire meno delle parole, che da precise diventano anfore vuote. È dalla propria incapacità di vedere che Maarten capisce che vediamo più con la memoria che con gli occhi. E anche ai primi segni della perdita delle parole, il malfunzionamento rivela come si producono pensieri e come si traducono in parole comprensibili: «Een klein danspasje is hier op zijn voet, nee… nee… pas… pas op de plááts! Een lek. Ergens zit een klein lek», che in traduzione diventa «E ora un passetto di danza sul piede, no… no… un passo… un passo sul posto! Una fuga. Da qualche parte c’è una piccola fuga» (p. 65). Musilli accetta in modo ammirevole la sfida linguistica di Bernlef. Una differenza notevole è però che, mentre nella traduzione letterale prevale la mancanza di senso, nell’originale gli errori mostrano la ricerca della parola giusta per completare l’espressione fissa ‘op zijn plaats zijn’ (letteralmente, e significativamente, ‘essere al suo posto’). Ma ‘pas’ fa pensare a ‘voet’, che appartiene allo stesso campo semantico, e solo dopo, attraverso un’altra espressione fissa con ‘pas’, Maarten trova la parola giusta che completa la frase. Ciò riflette una normalissima interferenza di parole che abitano la stessa area semantica nel cervello e che si attivano contemporaneamente, a volte presentandosi in modo più insistente della parola che si cerca. Ma nel caso di Maarten, che non è più ‘al suo posto’, che si sente sempre fuoriluogo, questa ‘fuga’ è chiaramente indicativa di una fuga più ampia, delle parole dal suo cervello, e dell‘‘io’ dal suo corpo: «E una parola sbagliata porta a pensieri sbagliati, a fare cose sbagliate; le parole funzionano come punti di interscambio» (p. 116).
Maarten perde la direzione e il controllo del corpo, disabitando una «testa troppo grande per continuare a viverci dentro» (p. 169). Si aliena dall’ambiente e dalle persone, isolandosi e allo stesso tempo perdendo la distinzione tra mente e mondo. Alterna momenti di angosciata attesa, attesa che il mondo gli dia segnali e significati, ad improvvisi impulsi di andare al lavoro, da suo padre, nel bosco. Prevale la discontinuità: «Un pennello di legno, una macchia sul pavimento – non indicano una durata, solo uno stato (Diamine, non c’è più traccia di una storia qui)» (p. 170). Il suo è un disconoscersi fuori e dentro, rispecchiato nel frantumarsi della storia (quella raccontata come quella vissuta), della sintassi, del soggetto alla deriva che può essere un ‘io’, ‘lui’ o ‘loro’. Le parole sostituiscono il mondo oggettivo che sparisce e poi diventano loro stessi oggetti non riconosciuti. I proverbi e le espressioni fisse rimangono più a lungo, «schizzano come tappi di sughero, che lo si voglia o no, le frasi migliori sono troppo lunghe e pesanti, rimangono a dondolarmi sotto la lingua» (p. 167).
I sempre più rari momenti di lucidità si colorano del dolore generale causato dallo stato di smarrimento. Le lacrime scorrono in modo automatico, in un corpo che si muove sempre meno, scollegato dall’anima. A volte, tra le parole troppo ‘leggere’, cioè senza importanza o senso compiuto per chi le pronuncia, si formano le quattro lettere del nome che ha più peso: «due odori che aleggiano intorno a me… si fondono insieme… fiori e grafite… compongono un nome… la parola più cara e pesante della mia vita… sale dagli abissi più profondi come una bolla d’aria… sfugge e scoppia nella stanza con un gran botto… mi metto la mano davanti alla bocca e mi mordo le dita» (p. 176). Non lo leggiamo, ma capiamo che si tratta di Vera. Questo episodio avviene alla fine del libro, quando l’inverno sembra sempre più inevitabile e la neve fiocca fuori e dentro. Ma a chiudere il libro è una voce di donna (Vera stessa?) che annuncia fuori campo, finalmente, l’arrivo della primavera.
Nel 2007 Hersenschimmen è stato eletto il quarto miglior libro olandese di tutti i tempi, in una votazione organizzata dal giornale NRC. Chimere è l’amara poesia dello spegnersi di una vita. È un libro che ci rende consapevoli che la perdita di un’anima, serbatoio di ricordi, è sempre plurale, per la pluralità dei ricordi morti e delle relazioni connesse ad essi. Bernlef riesce nell’impresa di raccontare l’ineffabile, di far arrivare le emozioni di un dramma senza spettacolo, di comunicare l’isolamento assoluto e le lezioni di vita che impariamo solo attraverso una perdita. O tramite un libro come Chimere, lettura che, anche quando si dimentica, difficilmente si scorda.

J. Bernlef, Chimere, traduzione di Stefano Musilli, Fazi, Roma 2024, € 16,50, 168 pp.