Secondo Roland Barthes, in epoca classica esisteva un rapporto quantitativo tra prosa e poesia, schematizzabile nell’equazione «poesia = prosa + a + b + c», laddove gli addendi indicano aggiunte ornamentali (metro, rima, strofe etc.) al «discorso minimo» della prosa. Un simile modello interpretativo, con le sue innegabili qualità schematiche, è impreparato davanti al sopraggiungere della modernità, foss’anche solo perché lo smembramento degli assiomi – o, in altri termini, la perdita di tutte le certezze, anche quelle prima considerate estremamente intuitive, come l’andare a capo e l’andare avanti – ha reso possibile parlare di forme poetiche che sono prose, di prose che sono poesie e di prose che, infine, sono pur sempre prose, ma senza che questo sia dato in alcun modo per scontato. I due membri dell’equazione si assomigliano senza riconoscersi, gli addendi perdono la loro funzione distintiva. La linearità classica vacilla, aggiunge incognite, rimescola i rapporti, perde prevedibilità: ne guadagna in complessità, e dopo il segno uguale si addensano le risposte.
In Defrost, raccolta poetica d’esordio di Diletta D’Angelo edita da Interno Poesia nel 2022, il rapporto di addizione cede il posto alla sottrazione, e la poesia rinuncia agli addendi ornamentali preferendogli un «cumulo di zampe di botte di cose rotte di code schiacciate» (p. 30) in grado di spaccare la gabbia poetica, che assume la forma, senza troppe perplessità e senza ombra di rammarico, di una pura «anatomia della violenza» (p. 26). Qui gli elementi non si aggiungono, ma si tolgono e si dissezionano.
La struttura stessa della raccolta, d’altra parte, pur esibendo la sua rigida e simmetrica quadripartizione rinuncia decisamente a proporre una resa di sistema: Anamnesi, Auscultazioni, Incisioni e Anatomie (questi i titoli delle sezioni), oltre a essere, evidentemente, scelte figlie di un linguaggio tutt’altro che poetico e idilliaco, riescono attraverso un processo ossimorico a distruggere la stessa unione che si propongono di creare: tutti fratelli all’interno della stessa famiglia lessicale, sono termini che richiamano direttamente la scomposizione, suggerendo che l’individuo non possa mai essere inteso come un tutto, ma piuttosto come il risultato di una storia clinica, propria e famigliare (e si rinuncia, qui, all’unità di tempo, al qui e ora, nonché all’autodeterminazione), e anche come rumore interno, insieme da recidere nella frammentazione delle parti.
Ma questo processo di vivisezione non rinuncia, anche quando ha che fare con le parole e non con la carne viva, alla precisione chirurgica: non è mai operazione da disossatore, ma da fine intagliatore. Seppure siano chiari, infatti, alcuni richiami a una certa tradizione della Neoavanguardia, primi tra tutti l’uso delle parentesi ad accumulo, à la Sanguineti, e lo sfruttamento di materiali extraletterari, di timbro quasi cronachistico (e si faccia il nome, tra i tanti, di Nanni Balestrini), qui, più evidentemente, lo spaccamento della forma agisce su un piano minuto, di precisione, e le porzioni verbali sono «frantumate piano | senza usare la forza» (p. 55), scisse nella loro singolarità tramite lo stridore del suono, rotte dall’interno. Non si rinuncia all’unità delle parole, non si espongono i lacerti di frasi frantumate, perché la frattura è più minuta, non si vede, ma si sente. Il lessico di D’Angelo è un polmone che fischia sotto lo stetoscopio, un rantolo in gola che spacca la linearità del silenzio: «Lavava i piatti come si scortica una cotenna […] come si scrostano le interiora dalla merda» (p. 19). Anche se di queste parole ignorassimo il significato, il significante basterebbe a farci male ai timpani. Non solo allontanamento dall’armonia, ma pura cacofonia: sottrazione, diniego. La frantumazione sonora si propaga, rimbomba, agisce prima singolarmente, sul morfema isolato (ferro, sfondato, urlo, bullone, scarico, etc.), per poi estendersi come un’eco sul periodo poetico: «incisivi affondati in fette | di carne cruda o stufata, impastata, galleggiante nello spurgo» (p. 35).
Qualcosa di simile accade ai personaggi che fanno la loro apparizione tra i versi, isolati nella loro tristezza (morfemi) e al tempo stesso coinvolti in un destino di strage collettiva (periodi). Ne è un esempio Tiresia, nella tradizione greca cieco indovino, che qui assume le vesti di un vitello dalle «pupille folte» in grado di osservare solo lo scampolo di prato subito sottostante i suoi occhi, totalmente ignorante del futuro anche più prossimo mentre trova conforto nel contatto umano che gli allontana le mosche dal corpo: il suo orecchio è morbido fino al punto in cui si trova un foro che non può che rimandare a un destino di carcassa, già d’altra parte annunciato dai «cento chili di cassa toracica» che ricevono la carezza, in grado di ridurre per semplice trasposizione numerica l’individuo al peso delle sue parti (p. 20).
Non sfugge a questo processo nemmeno l’io poetico: a volte presente in modo insistente, anche se sempre come frutto di una determinazione parentale, di una dannazione ereditaria («ho tre dita dei piedi come mio padre, le ultime due piegate (come mia madre)», p. 12: anamnesi, appunto), altre a tal punto assente da scindere il discorso dalla persona che lo pronuncia o subisce (i verbi di La colonia sono tutti di modo infinito: incisioni che separano l’agente dall’azione), o pronto a mostrarsi solo per determinare la distanza dal proprio enunciato, nonché da quello poetico in generale («il propagarsi della voce è sempre stato una necessità | (mai mia)», p. 49); ma, soprattutto, un io poetico che finisce per essere, anch’esso, bestia da macello: «un coniglio scuoiato, un coniglio che ancora pende freddo, sono un coniglio ricucito sul banco del macello» (p. 48). Succube, e non artefice, del proprio discorso poetico.
Sono allora proprio tutti, i soggetti, «poveri cristi chiusi nella stessa gabbia, così ben arredata e costruita» (p. 30), e questa gabbia, fuor (ma forse, senza voler sovrapporre inappropriatamente il processo linguistico al salto di specie, anche entro) di metafora, è costituita dalle quattro mura non di una casa, ma di un legame parentale: non spazio fisico, le cui pareti materiche contemplerebbero almeno la possibilità di una distruzione, ma limite assoluto, confine sanguigno e invisibile, e perciò insormontabile, impossibile da recidere, a meno di non farsi colare tutto il sangue come bestie appese al gancio.
Non manca per questo il tentativo, da parte del soggetto poetico, di allontanarsi dall’«aggregazione strutturata: gerarchizzata, instabile, tumultuosa» (p. 13), fisicamente e verbalmente (e, d’altra parte, è quest’ultimo lo spazio di allontanamento concesso al linguaggio poetico): alla famiglia spetta il tempo imperfetto («erano»), cronologicamente non troppo lontano ma pur sempre conchiuso, e i nomi propri non trovano spazio, gli individui si identificano solo attraverso le loro qualifiche relazionali (madre, padre, sorella), anche perché all’interno del «rifugio affollato» (p. 30) hanno perso la loro identità, hanno perso il controllo di sé («C’è chi sostiene che gli individui di un gruppo coeso | tendano a perdere l’identità personale, l’autocontrollo», p. 39).
Ma è ancora una scelta linguistica che di questo tentativo rivela il fallimento, poiché alla colonia si torna sempre, in modo infinito: «Rientrare nella colonia […] ritrovare i propri pezzi tra l’aggregato di microrganismi. […] Rientrare e regredire, tornare allo stato di figlio» (p. 58, corsivi miei), e qui è anche nella prefissazione insistita e nevrotica di «ri-» che si manifesta la serialità della resa, la coazione a ripetere, l’impossibilità di fare altrimenti. La casa come condanna, quindi, ma anche come unica garanzia di esistenza agli occhi degli altri: lo dimostra Tonino, con la sua triplice comparsa nella raccolta, che ha scoperto la via di uscita dalla gabbia: «Aveva un buon lavoro», ma «non ha mai avuto una famiglia», non una casa, e, per questo, si annulla, e la sua diviene una sagoma di fantasma: «Non lo vede nessuno Tonino, lo attraversano» (p. 46). Andarsene significa annullarsi, restare omologarsi, de-invidualizzarsi, esistere come massa, certo, ma pur sempre esistere.
Ci sono due gabbie, allora, all’interno di Defrost: una riguarda la forma linguistica, l’altra il contesto, l’ambiente entro cui l’individuo è costretto a svilupparsi. La prima, se non spaccare, può almeno piegare da dentro le proprie sbarre, ammorbidire la rigidità del metallo metrico, accettare i versi esorbitanti e le poesie in forma di prosa, sgretolare i limiti e dare segno, cacofonicamente, della propria divergenza; la seconda, invece, segue protocolli di massima sicurezza, e ha a tal punto agito sul soggetto (l’io poetico e il suo eterno ritorno, la madre «incorniciata orizzontale» (p. 44) che esso non necessita nemmeno più di una reclusione coatta, poiché è costretto a infliggersi geneticamente la pena in modo autonomo, secondo una legge che assume la forma di globuli rossi, e a fare infine sempre ritorno alla gabbia – concesso che sia mai stato, davvero, in grado di uscirne – «con i fiori spezzati tra le fratture esposte» (p. 56).
E se, tra i due, l’unico spazio dal quale è concessa la fuga è quello formale, D’Angelo decide di non rinunciarvi, facendo della parola il suo campo di azione, procedendo per sottrazione e spaccamento invece che per addizione, riducendo la casa poetica a un accumulo di macerie, rifiutando di imbiancarne i muri, di appendere quadri alle pareti: la sua è «un’arte in gran parte di pura scomposizione, come si conviene ad un tempo nutrito di terrore» (C. Campo, Attenzione e poesia, in Id., Gli imperdonabili, Adelphi, Milano 1987, p. 167) , un tempo nel quale l’assenza totale della possibilità di movimento, di fuga, di evasione dalle proprie «vergognose tare» (p. 60) famigliari e sociali, cucite addosso come spago sull’arrosto, incise nella carne fino a plasmarne la forma, lascia, come unica disperata soluzione, l’accettazione della propria condanna, e la rinuncia sofferta a concepirsi come individui in grado di stabilire il proprio destino da sé, consapevoli di essere forati all’orecchio, etichettati e assegnati al macello, determinati geneticamente e socialmente forse ancor prima della nascita.

D. D’Angelo, Defrost, Interno poesia, Latiano (BR) 2022, 78 pp., € 13.