Proseguiamo con la presentazione dei libri finalisti del Premio Narrativa Bergamo 2025. Gli incontri con gli autori si tengono alla Sala Galmozzi di Bergamo per cinque giovedì di fila alle ore 18. Dopo Dario Voltolini e Bruno Pischedda, oggi è il turno di Ade Zeno.

Il 9 novembre del 1923, «poche ore prima che in una celebre birreria chiamata Bürgerbräukeller due esagitati galantuomini inscenassero il putiferio passato alla Storia come Putsch di Monaco» (p. 13), Gebke Bauer discute la sua tesi di laurea.
Gebke, a partire dall’adolescenza, vive una vita appartata e dedita a severi studi, per via di una peculiarità fisica che lo separa dal mondo: è nato con dodici dita. Così prende le mosse I santi mostri, romanzo di Ade Zeno pubblicato da Bollati Boringhieri nel febbraio del 2024.
Negli anni dell’università Gebke Bauer conosce Eckart Brandt, affascinato dalla personalità e dalle idee di Hitler, il cui fratello Jörg, affetto da ipertricosi, è pressoché ignorato dai genitori e deriso dallo stesso Eckart.
In breve tempo tra Gebke e Jörg nasce un’amicizia capace di infondere sicurezza in entrambi. I due lasciano le rispettive famiglie per unirsi – nell’estate del 1924 – al Mirabolante Circo Vogt, di cui Jörg diventerà la principale attrazione semplicemente leggendo versi del poemetto Il paradiso dissolto, scritto dall’italiano Lazzaro Ghirlandai (sotto cui potrebbe celarsi proprio Gebke). Nel mese di novembre conoscono l’impresario olandese Warin Dekker, su impulso del quale danno vita all’Errante compagnia dei Santi Mostri. Ne fanno parte anche il giovane Balthasar, chiamato Uomo piovra perché «il suo corpo si biforcava all’altezza della regione pelvica e terminava con quattro glutei e tre gambe» (p. 34); Benno, con una malformazione «che costringeva le sue ginocchia a piegarsi al contrario» (ibid.); infine Hilla: «Sul suo volto una bocca e due facce. La prima rideva. L’altra, no» (p. 35).
La compagnia, spostandosi a bordo di un bus ribattezzato Geraldine, porta i suoi spettacoli in tutta la Germania, ottenendo successi sempre più fragorosi. «Oltre al pubblico che accorreva sempre numeroso, erano molte le celebrità che facevano a gara per contendersi i posti in prima fila, e molti anni dopo Gebke avrebbe ricordato con tenerezza un lontano pomeriggio del 1930 in cui venne raggiunto nei camerini dalla creatura più ammaliante che avesse mai incontrato» (p. 77): si tratta di Marlene Dietrich. È qui il caso di accennare a una delle incongruenze che abbiamo colto nel corso dell’opera: se bene abbiamo inteso le pagine finali, Gebke Bauer non dovrebbe avere raggiunto un’età tale da consentirgli di ripensare al 1930 come a una data remota nel tempo.
Nel 1933 Hitler sale al potere e la situazione diventa di anno in anno più drammatica per la compagnia. Arriviamo al 1940: «Il fatto che fossero stati in cartellone per così tanto tempo aveva evitato ai Mostri di essere inseriti nelle caselle di certe lugubri liste […] ma nulla lasciava sperare che una volta spenti i riflettori la situazione non peggiorasse» (p. 89). Il riferimento è al Programma Aktion 04, diretto da Karl Brandt, che prevedeva l’eliminazione dei disabili mentali e delle persone affette da malattie genetiche.
Siamo intorno alla metà della narrazione quando si unisce alla compagnia un altro personaggio, Andris Scnneiber. Il cui soprannome, Polifemo, rimanda in modo inequivocabile a una sua bizzarra caratteristica fisica.
A questo punto la prospettiva muta in modo inatteso, e Andris Scnneiber scalza Gebke Bauer in qualità di personaggio centrale. È un brusco cambio di direzione, che potrebbe spiazzare più di un lettore, nonostante si possa immaginare che la scelta di porre al centro della scena Polifemo sia stata funzionale allo sviluppo della storia: la sua vicenda biografica sarà strettamente legata al periodo conclusivo del regime hitleriano.
«L’ultimo spettacolo della compagnia ebbe luogo il 22 ottobre del 1943» (p. 136); da lì a poco, Gebke e gli altri si riuniscono per prendere una decisione: «nelle ore immediatamente successive avrebbero dovuto trovare un posto sicuro per nascondere Andris, smontare la baracca, e sparire il più lontano possibile» (p. 143). E a questa altezza del romanzo siamo di fronte a un’ulteriore forzatura, presumiamo sempre per ragioni narrative: perché anche Andris non lascia la Germania, anzi afferma: «Voi andrete via, io mi fermerò. Quando le acque si saranno calmate, troveremo un modo per riunirci» (p. 144)?
La sensazione è che in svariati passaggi l’autore proceda per più o meno vistose approssimazioni, forse mosso da un’eccessiva urgenza di giungere alle conclusioni predeterminate. Ciò è addirittura esplicitato a p. 153: «Nessuno seppe quali strade percorse Polifemo per arrivare da Karl Brandt». Fatto sta che tra Andris Scnneiber e il criminale nazista si sviluppa un rapporto di sottomissione travestito da amicizia, in cui Brandt – evidentemente attratto in modo morboso dall’abnormità fisica di Andris – lo tratta con ogni riguardo esteriore. Finché un giorno Hitler in persona vorrà conoscere Polifemo: al pranzo organizzato a Berlino prenderà parte anche un certo Finster, detto Il Corvo, spietato ufficiale che porterà Andris con sé a Dresda, allo scopo di mostrarlo ai prigionieri già spossati dalle torture per terrorizzarli e indurli a confessare reati non importa se davvero commessi. Qui, per l’ultima volta, Polifemo incontrerà Gebke e Jörg.
I santi mostri ripropone il tema del diverso, nella specifica accezione del freak, già oggetto di tale e tanta letteratura (e cinematografia) da essere ormai diventato ad altissimo rischio di retorica. In altre parole: come trattare il tema dell’anomalia fisica, e della mancata accettazione da parte della società, da una prospettiva originale?
Nel romanzo di Ade Zeno, dobbiamo dire, l’ambientazione è in un certo senso la più comoda possibile: in pochi altri momenti della storia moderna e contemporanea un regime politico ha osteggiato in modo così feroce e sistematico la diversità. Inoltre, tralasciando le incoerenze già segnalate, ci è parso che pure altre scelte compositive siano state dettate dalla volontà di confezionare un’opera che risulta fin troppo ordinata, prevedibile, consolatoria. Un esempio su tutti: nel presentare la figura di Karl Brandt non si rifugge dallo stereotipo del nazista folle ma dotato di spiccato gusto estetico e pure di una certa sensibilità. Leggiamo: «Amava il lavoro, questo sì, ma anche il pensiero delle gite sul lago con Anni e il piccolo Karl-Adolf gli procurava, talvolta, un remoto senso di pace» (p. 130). E nella pagina successiva: «Per distendere la mente e allontanare la paura, Karl Brandt collezionava farfalle. Nessun’altra attività lo assorbiva in modo così assoluto. Chiuso nella sua stanza – che si trattasse dello studio o di una camera d’albergo non aveva importanza – trascorreva in loro compagnia le ultime ore della notte» (p. 151).
Anche lo stile sembra riflettere il desiderio di offrire ai lettori ciò che essi attendono. Sempre negli stessi dintorni testuali, si percepisce la necessità di descrivere la figura di Karl Brandt come ossimorica, dunque lo si tratteggia sottolineando proprio la sua ambivalenza, ma per farlo si incappa in qualche leggerezza di troppo:
«Occhi poco attenti avrebbero riconosciuto in lui un essere affidabile, sicuro di sé, in perfetto equilibrio fra le responsabilità previste dal suo ruolo e la solidità della persona; un uomo per il quale abnegazione e senso del dovere erano leggi imprescindibili, e l’ambizione un formidabile strumento al loro servizio. Eppure non poteva sfuggire l’evidenza di una certa inquietudine, lo stesso smarrimento che fin da bambino lo agitava in sogno mentre veniva inseguito da bestie selvagge, idre, e orribili ombre alate» (ibid.)
Tuttavia, se “occhi poco attenti” possono cogliere, in Brandt, solo un generale inflessibile, non è chiaro come “non poteva sfuggire l’evidenza di una certa inquietudine”: se essa non può sfuggire, dovrebbe essere colta anche dai suddetti occhi poco attenti. Peraltro, la medesima inquietudine viene connotata con immagini di facile impatto emotivo.
In conclusione, ci sembra che I santi mostri non riesca a occuparsi della cosiddetta diversità fisica, e del suo attrito col mondo, adottando un punto di vista inedito e persuasivo. In assenza del quale un’opera, per quanto ben congegnata, difficilmente saprà coinvolgere il fruitore non ignaro dell’argomento (e della sua rappresentazione in altre opere).
A conforto di quanto abbiamo espresso, suggeriamo ai nostri lettori la visione di due film: certamente il classico The Elephant Man, girato da David Lynch nel 1980, ma anche il recente Border – Creature di confine di Ali Abbasi (2018).

Ade Zeno, I Santi Mostri, Bollati Boringhieri, Torino 2024, 204 pp. 17,00€