Spesso durante le mie escursioni estive in alta montagna, mi sono chiesta come sarebbe stato trattenersi in rifugio per qualche giorno o, addirittura, per un’intera stagione invece che giusto per il tempo necessario a buttare giù un caffè e una torta di mele, sempre con un occhio al cielo per controllare che il vento non cambiasse repentinamente e mi costringesse a tirare fuori dallo zaino il famigerato ricambio di vestiti. Perché mio padre mi ha insegnato che in montagna si va sempre con “uno di tutto”, non si sa mai cosa può succedere, e io l’ho sempre preso in giro. Cosa mai poteva accadere nel giro di qualche ora, se partivamo alla buon’ora con il sole e il cielo terso?
Beatrice, o meglio Bea, la protagonista ventiquattrenne del romanzo La strangera, (Guanda, 2024) ben più saggia di me, mentre prepara la sua valigia per trasferirsi in montagna, si interroga fin dall’inizio sull’essenzialità della montagna e le sue regole imprevedibili: «come si fa a preparare un bagaglio per un viaggio che sai quando inizia ma non quando finisce?»
L’autrice Marta Aidala, esordiente torinese da sempre appassionata di arrampicate e scalate in montagna, ci racconta di una ragazza di città in cerca del suo posto nel mondo. Bea ha infatti lasciato a metà la tesi di laurea e gli ultimi tre esami, ha salutato la famiglia per andare a lavorare in un rifugio nella valle della Becca gestito dal Barba, un personaggio che non potrebbe vivere altrove se non in mezzo agli stambecchi, un uomo burbero ma instancabile, radicato nelle proprie saggezze, vero e proprio custode dei luoghi. Uno che sembra saperne più degli altri. Invece Bea ancora non sa definirsi.
È scontrosa, piena di rabbia e del suo passato sappiamo poco ma la osserviamo cercarsi tra le vallate e gli altopiani, in solitudine e con Elbio, il malgaro dai «capelli di fieno», abitante della montagna «abituato alle strade che non hanno un sentiero», con cui sboccia un sentimento timido ma robusto. Nella faticosa routine della vita di rifugio, c’è moltissimo tempo per domandarsi chi siamo quando non sappiamo più trovarci. Infatti anche Bea si sente «spoglia come un pendio da cui si è appena staccata una valanga», affascinata dalla natura ma estranea ai sentieri e alle ferrate che dovrà imparare a percorrere con un passo e un ritmo nuovo, sfidando il suo bisogno di certezze.
«In montagna nessuno fa domande. Si preferisce guardare, aspettare, e le risposte trovarsele da soli. Io invece volevo sapere tutto subito, faticavo ad avere pazienza», racconta Bea mentre si trova alle prese con il lavoro di barista/cameriera/cuoca/tuttofare nel rifugio «la banda» ovvero i ragazzi con cui condivide il suo tempo e il suo spazio in camerata, il mondo dei pastori e degli animali che regnano nelle montagne. Nonostante la trama e i personaggi siano ben definiti, e la lettura intensa, il romanzo è anche una lunga e complessa dichiarazione d’amore per la montagna da parte di qualcuno, come la scrittrice, che, realmente, per un periodo della sua vita ha scelto di rimanere, di non essere solamente un’escursionista della domenica.
L’esperienza in prima persona di Aidala permea tutto il testo di verità pur lasciando a chi legge lo spazio di fantasticare e di provare nostalgia per una vita diversa. Immaginare di sentire i campanacci delle mandrie tintinnare al vento, osservare le fronde degli abeti che ondeggiano e pensare di potersi davvero caricare uno zaino in spalla e ritirarsi in un rifugio di montagna – questi sono solamente alcuni degli effetti collaterali che Marta Aidala con il suo linguaggio intimo, ancorato nei gesti, regala ai lettori e alle lettrici, con il suo romanzo d’esordio.
L’autrice, al pari di scrittori più affermati come Paolo Cognetti che ricordiamo per il grande successo de Le otto montagne e il recentissimo documentario di sua produzione Fiore mio, e similmente a Lalla Romano in Pralève e altri racconti di montagna, riaccende il mito della montagna come luogo di abissale catarsi interiore descrivendola in maniera evocativa, ma reale ed accessibile, libera dagli stereotipi, anche di genere. Fin dalle prime righe il paesaggio diventa necessariamente parte integrante della narrazione: «Le montagne sono donne immense, eppure tante portano nomi di uomini». La montagna è umana perché sottoposta allo sguardo dell’autrice, è umana perché ognuno di noi cambia al variare dell’altitudine, delle temperature, del grado dell’isolamento che ci separa dal nostro habitat quotidiano.
«Le mancanze non sono mai orizzontali o verticali ma vanno in obliquo, come le depressioni tra i valichi, i picchi di un cuore che ansima»
Il rifugio di montagna nasconde e protegge, si presenta come un microcosmo dove si intrecciano le storie di persone dai trascorsi diversi, al riparo dagli sguardi del mondo di città, delle iperconnessioni tecnologiche: come scrive Aidala, la baita possiede «una sorta di potere magico: tessere legami tra persone che, se si fossero incontrate in qualsiasi altro luogo, avrebbero creduto di non avere nulla da spartire» . Nonostante questo, l’integrazione non è un processo immediato. Bea non solo è una delle poche donne che gravitano nell’universo della montagna popolato per lo più da uomini – escursionisti, pastori, malgari e alpinisti del Soccorso Alpino -, ma è diversa soprattutto perché non è nativa del luogo e quindi ritenuta, necessariamente, più debole, meno avvezza alle asperità del territorio e della vita. «Essere fumna già di per sé era uno svantaggio. Fossi nata in valle si sarebbe potuto sorvolare, ma io ero anche strangera, cittadina, un altro punto a sfavore».
Se La strangera fosse una montagna, se dovessi descrivere la struttura del romanzo alla stregua di un elemento naturale, penserei sicuramente a un altopiano fatto di distese verdissime illuminate da un sole chiaro, dove si sale piano e si rimane incantati ad ammirare i personaggi, i legami e le avventure quotidiane di Bea nella sua vita-rifugio. La neve che arriva tardi o non arriva mai, i generatori che vanno in blocco, l’invasione dei topi, le tracce del lupo, fino ad arrivare all’episodio dei due escursionisti dispersi che segna forse il picco più alto nell’arco della narrazione, appena oltre la metà del romanzo.
Marta Aidala, in questi quaranta capitoli che scorrono veloci come il vento ma con le doverose pause per apprezzarne la voce, ci abbraccia nella sua montagna fatta di solitudine e di paura, ma anche di condivisione e di relazioni intime dove non servono troppe parole, in un mondo dove l’imprevedibilità delle condizioni atmosferiche e del nostro stato d’animo ci porta alla prudenza, all’analisi introspettiva e, perché no, a non dimenticare mai di portare con sé il ricambio di calzini, mutande, impermeabile e maglietta termica perché, si sa, in montagna può succedere di tutto, anche di trovarsi.

Marta Aidala, La strangera, Guanda, Parma 2024, 336 pp., € 18.