Nella foresta equadoregna, ai protagonisti di Queer William (Daniel Craig) e Eugene (Drew Starkey), esce il cuore dal petto. O meglio, fuoriesce dalla bocca, letteralmente; sputano il materiale organico e lo guardano pulsare tra le mani. È una sequenza allucinogena, che per certi versi sembra scritta nella Bhagavaghita, la sezione centrale del Mahābhārata, il grande poema epico indiano del V secolo a.C.. E invece sono gli effetti dell’ayahuasca, un decotto dai poteri psichedelici, che riflette l’attrazione antropologica del cinema di Luca Guadagnino verso ciò che è sovversivo.
Infatti, se Queer è certamente il film più personale del regista siciliano come ha dichiarato lui stesso, è altresì uno dei lavori in cui gioca di più con la sua attitudine sperimentalista, declinata sia dal punto di vista visivo, sia da quello intimista, quasi mediasse la fotografia di Sayomphu Mukdiphrom che bagna i corpi di Craig e Starkey a Città del Messico, e li ritaglia, tra luci e ombre durante gli amplessi. Si tratta, quindi, di un Guadagnino che riassembla i toni ben noti del surreale– da Suspiria a Bones and All a quelli altrettanto esplorati della ricerca del desiderio – nel trittico Io sono l’amore, A Bigger Splash, Chiamami col tuo nome – con un nuovo ordine, capace di miscelare evocazione e provocazione, e forse superare anche il grande rigore formale di Challengers.

La radice “quer”

Diverso, Checca, Queer. I tre titoli italiani delle tre diverse edizioni del romanzo di William S. Burroughs (‘58, ’98, 2013) adattato da Guadagnino testimoniano la lunga diacronia lessicale di una delle parole oggi più “chiacchierate”, cioè appunto “queer”. La radice tedesca “quer”, nel primo medioevo, indicava una forma geometrica strana, obliqua, non conforme. Poi, nel diciannovesimo secolo diventerà un espressivo negativo, ossia un termine usato per insultare, dileggiare, offendere chi non è eterosessuale; fino a quando, tra gli anni ’80 e ’90, filosofi come Michel Foucault, Judith Butler, Teresa de Laurentis, individueranno in “queer” il grido identificativo della battaglia politica LGBTQIA+.
Questo scivolo semantico è paradossalmente una delle cifre tematiche del film presentato a Venezia e in uscita in Italia il prossimo aprile. Se il corpo, dice Paul B. Preciado (in Manifesto controsessuale (Fandango, 2019), è il luogo della sperimentazione, in Queer lo è altrettanto lo spazio dell’immagine, che punta a una materialità deleuziana: gli shot non fotografano il reale nel mondo, ma il movimento di quest’ultimo. La pellicola di Guadagnino, allora, tematizza proprio il tratto rivelatore della sovversione, insomma le epifanie che costellano la parabola di William. A ciò, appunto, è legata una ricerca del significato primordiale della relazione come uso/abuso, che fa da sali-scendi lungo tutta la storia e su cui Guadagnino alterna il gioco del doppio semantico di cui dicevo, tra campi e controcampi (al limite dei 180°), tra il corpo e il suo riflesso.
In questo senso, i finti piano-sequenza degli amplessi tra William e Eugene contribuiscono a tracciare una cosmologia del movimento, dello scambio, che ritorna finanche nella danza nella foresta. In particolare, se da un lato quest’ultima ricorda lo sguardo psichedelico di Disco Boy, fuso in una geografia matissiana, dall’altro lato, le scene d’amore tra i due protagonisti veicolano un’espressività sessuale che si insinua tra i suoni acusmatici. Per certi aspetti, il sesso di Queer assomiglia molto a quello di Dieci capodanni, la sorprendente serie tv diretta da Rodrigo Sorogoyen (il regista del bellissimo As bestas): sia nelle dieci puntate, sia nella pellicola di Guadagnino, l’unione dei corpi è rallentata, è temporalmente espansa, dal suo innesco all’acme, all’orgasmo, e a ciò che segue, ossia Craig che beve il liquido seminale del compagno (riscrivendo Burroughs, come accade anche per l’ayahuasca che manca nel romanzo). In altre parole, il sesso non è più un passepartout narrativo, una sospensione del flusso diegetico, ma un dato di realtà implacabile.

Camere separate

Un altro tema chiave di Queer è il concetto di separazione, o meglio, il grado di separazione tra William e Eugene. Mi riferisco cioè a quell’espressione che in gergo comune richiama la famosa teoria sociologica del cosiddetto mondo piccolo (resa famosa anche dal film di Fred Schepisi 6 gradi di separazione), ossia l’ipotesi che (semplifico) prova a definire probabilisticamente come sono legate due persone appartenenti allo stesso insieme.
Al netto della matematica, in Queer – forse non come in Io sono l’amore, ma di sicuro più che in Chiamami col tuo nome –il cineasta siciliano riesce nel “paradosso del mondo piccolo”: Craig e Starkey, pur essendo vicini, dialogano a distanza, tra abbracci respinti e sguardi che attraversano il bar di città del Messico. È un’altalena di presenze-assenze, di dentro-fuori, che Guadagnino sintetizza per esempio nelle ripetute inquadrature che dall’interno del bar seguono William entrare nel locale, con un Craig mai visto, le cui espressioni, dietro la montatura trasparente degli occhiali, aprono ferite.
Inconsapevolmente, credo che Queer fa (farà) da prologo all’adattamento di Camere separate, il romanzo cult di Pier Vittorio Tondelli che il filmmaker siciliano ha già in cantiere. Infatti, è come se alla lezione dello scrittore emiliano – che nel suo romanzo più famoso revoca alla parola il suo potere deittico, evocativo, terapeutico – Guadagnino abbia sovrapposto una dimensione sia esistenziale, in cui il dolore è prova dell’amore (il dolore è più reale dell’amore, si dice nel romanzo, come racconta Stefano Marino in un bellissimo pezzo su Camere Separate), sia una onirica, in cui reale e controfattuale si confondono. Insomma, l’idea non è troppo lontana da quella di Dostoevskij, la serie dei Fratelli d’Innocenzo, in cui ciò che fa esistere il detective-protagonista è proprio la sofferenza e l’ossessione, l’abuso.

Dis-embodied

In neuroscienze, la teoria dell’embodied cognition (cognizione incorporata o incarnata) – ovvero l’ipotesi secondo cui (se per esempio pensiamo al linguaggio), quando dico la parola “calcio”, nel mio cervello si attivano le stesse zone che attiverebbero il reale movimento della gamba -, ha avuto un grande “successo popolare”, forse anche per il potenziale metaforico. In questo caso, credo aiuti a mettere a fuoco la battuta centrale di Queer, in cui Craig dice io non sono queer, sono disembodied.
William si sente “scorporato”, in una giostra di specchi e istinti, in cui ogni parola, ogni dialogo ha la sua controparte o rappresentazione motoria, prossemica. Torniamo, allora, al sesso, a cui si aggiunge un ulteriore grado di complessità, o separazione: il già detto studio dei corpi corre soprattutto su un binario muscolare, fisico, in cui corpo e mente sembrano reincorporati solo dagli insert, con un finissimo discorso metavisuale, evidente anche negli altrettanti insert dei corpi-manichino. Questa “dis-incarnazione”, per fare un volo pindarico (ma neanche troppo), guarda da vicino alle figure di Apocalypse Now, soprattutto se guardiamo da dove siamo partiti, dalla foresta equadoregna, il luogo in cui Guadagnino supera il finale di Burroughs. In Queer, dunque, nell’epilogo, ritroviamo l’elemento esoterico, forse malvagio a là Cuore di tenebra appunto, che include una atmosfera fiabesca, insondabile. Per poi, infine, raggiungere quella stanza d’hotel dalle pareti rosse che appare nel prologo della storia, in cui William fa sesso con un prostituto.
Il ritorno a quella stanza, all’inizio, mi fa venire in mente due cose. La prima riguarda una frase di Cechov in Il giardino dei ciliegi, che dice (circa) anche se tra duecento anni l’uomo saprà volare, la vita resterà sempre dura e piena di mistero. La seconda è legata a un vecchio film di Victor Erice che si chiama A song de lumiere, che Guadagnino, sono sicuro, conosce, e che affronta una lunga riflessione sul tempo della narrazione, del cinema. Ecco, queste due cose, questa “asimmetria misteriosa dei tempi” che avvicina e allontana i protagonisti di Queer, mi sembra racconti del film proprio come fa il suo regista: questa è una storia sulla tragedia di non essere nello stesso posto nello stesso momento, ma entrambi innamorati.