«Trieste ha una scontrosa grazia […] è come un ragazzaccio aspro e vorace»[1]. Il suo fascino sinistro e austero la rende inaccessibile: città di confine, di margine geografico che si fa culturale, nonostante la sua storia dica tutto il contrario. Madre di scrittori e poeti, cuore pulsante di un rinnovamento culturale che nel primo Novecento ha avuto tra i suoi maggiori esponenti proprio i suoi figli: Joyce, Svevo e Saba, passando per Rilke fino ad arrivare a Magris. Le strade portano targhe con i nomi di queste figure che vengono studiate nelle scuole, è l’eredità che la Storia le ha lasciato e «a forza di dire così non sono più nati grandi scrittori in questa città. Il passato li ha schiacciati tutti» (p.109).

Federica Manzon è una triestina adottiva, eppure quel carattere tormentoso, di una città «adatta alla solitudine» (p.233) riesce a coglierlo e descriverlo con impeto e delicatezza. Proprio a Triste ambienta Alma pubblicato per Feltrinelli e vincitore del Premio Campiello 2024. Un romanzo che affonda le radici nella Trieste nostalgica del regno asburgico, con i suoi caffè con i grandi specchi e i tavoli in ferro battuto, ma anche nell’eredità ricevuta dal genocidio culturale sloveno. È la città dei rifugiati perseguitati dal Maresciallo Tito e dal purismo iugoslavo che custodisce tracce della loro esistenza nel Magazzino 18 al Porto Vecchio.

È Trieste stessa, forse, la vera protagonista di Alma, impersonata da una ragazza di mezza età che vive a Roma in pieno stato di alienazione. Gli avvenimenti hanno portato la donna lontano dalla «città di carta» (p. 232) in cui, però, è costretta a far ritorno richiamata dagli affetti per fare i conti con la Storia.

Alma, «che degli ultimi si sente in compagnia»[2], è inaccessibile e selvatica. È figlia dei suoi tempi ma anche della sua terra: nipote di nonni dell’alta borghesia asburgica e figlia di una donna fuggita da quel mondo statico e claustrofobico, ha sposato un uomo misterioso e lavora nella Città dei Matti (ex ospedale psichiatrico) con il dottor Franco, un medico visionario che rievoca Franco Basaglia, sebbene proiettato ai giorni nostri.

Il padre di Alma è un uomo dalle origini ignote, uno spirito libero che viene da «di là», in perenne viaggio, richiamato sempre dalla città e mai dalla famiglia (p.17). Una figura magnetica che ha «la capacità di rendere magici gli istanti» (p.21), inafferrabile e sognatore con tratti che ricordano, per forza di cose, l’immagine che Elsa Morante dà di Wilhelm Gerace ne L’isola di Arturo. Un uomo che agli occhi del figlio si metteva in viaggio «verso azioni avventurose ed eroiche […] che aveva ad attenderlo, al di là del mare, compagnie di prodi al suo comando»[3]. Questo padre che sparisce continuamente genera il desiderio di ritorno nei suoi cari (proprio come Wilhelm per Arturo), e Trieste stessa sembra assorbire i tratti della Procida idilliaca e pura raccontata da Morante. Un padre assente ma capace di grandi sorprese; la più grande – e forse la più riuscita – è quando un giorno, di punto in bianco, porta a casa un ragazzino smilzo e selvaggio: Vili Knezevic[GR2] . Quasi uno chocper Alma, bambina inquieta e solitaria che si ritrova a dover condividere i suoi spazi, il suo mondo e suo padre, con un altro bambino comparso dal nulla e – in apparenza – senza particolari motivazioni.

Si era materializzato sulla porta della casa sul Carso un sabato di settembre che ancora si facevano i bagni al mare: un bambino magro magro, gli occhi neri e la frangia scura da teppista, indossa una pantaloni della tuta e maglia della Stella Rossa di Belgrado con cui sembra aver dormito da giorni, una felpa legata in vita, dalla spalla gli pende un borsone sportivo che è il suo bagaglio, tra le braccia stringe un razzo spaziale (p.52).

Questa è la descrizione che Manzon fa di Vili, un personaggio che viene introdotto nella narrazione in punta di piedi ma che gioca un ruolo fondamentale, non solo per lo svolgimento della trama, ma anche per il carattere schivo di Alma. Vili è compagno, antagonista, amante, amico e fantasma, in una sola parola, Vili è famiglia.

Inizia così, per Alma, una nuova fase della propria vita, la sua infanzia scandita tra i racconti del nonno e le giornate alla Casa dei Matti subisce un cambiamento che l’accompagnerà fino all’età adulta perché Vili incuriosisce, e non poco, la bambina. Girovaghi come due fuggiaschi nella vecchia Trieste, trascorrono i pomeriggi a conoscersi mentre scoprono i luoghi nascosti di una città che ad entrambi sembra straniera; in un attimo la loro frequentazione diventa necessaria e il Porto Vecchio appare l’ambientazione perfetta per la storia che stanno scrivendo.

La geografia come elemento storico – e perciò sociale – è, probabilmente, il fulcro della narrazione: Vili, Alma e il padre sono fuggenti, proprio come i luoghi in cui hanno radici ma da cui tentano di sfuggire e tornare.

La geografia ha sempre la meglio sulla Storia […] nascere sulla sponda di un grande fiume o in una città affacciata sul mare aperto oppure in uno di quei villaggi sul confine, essere nati a ovest o a est d’Europa, fa la differenza: la geografia ci incatena e un carattere, decide in anticipo chi siamo e l’impressione che faremo sugli altri (p.91).

Alma, che per tutta la vita non ha fatto altro che scappare, sempre alla ricerca di un altrove: di casa in casa, di letto in letto, da adulta torna a Trieste [GR3] e avverte per la prima volta la sensazione di essere a casa. Sa che, prima o poi, «uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione»[4][GR4] .

Continua, però, a sentirsi un’esule, come avveniva nella Belgrado assediata e nella libera Roma, emblema di un Occidente che ha dimenticato in fretta la questione balcanica per poi tornare ad interessarsi di nuovo a quel mondo soltanto perché oggi si combatte una nuova guerra ancora più a est.

Se le avessero chiesto cosa significava per lei la guerra, avrebbe parlato delle vecchie con i fazzoletti a fiori dietro i finestrini delle corriere, avrebbe parlato del dolore, della disperazione anche, non del pericolo (p.166).

Alma è un romanzo che mette al centro un fatto storico ancora vivo nella memoria collettiva di molti e lo racconta attraverso il ricordo che ne custodisce la protagonista[GR5] . Perché, in fondo, «scrivere è sempre un regolamento di conti personale» (p.221) e lo sa bene Alma, così come Vili che il mondo, invece, lo racconta attraverso l’obiettivo della sua macchina fotografica. Ma ancora meglio sembra saperlo il padre di Alma: ponte e collante tra due mondi e tra due storie, testimone di un’epoca che non esiste più, un po’ come il nonno materno nei confronti del vecchio impero asburgico.

Manzon scrive un romanzo sul tempo, sul tempo che non può tornare e sul presente che sembra modellarsi sempre a immagine del passato, che si ripropone come un debito che sente addosso Vili come reporter e come straniero in casa sua; il padre di Alma che aveva creduto nel sogno chiamato Jugoslavia e nell’utopia che aveva contribuito a costruire. Ma più di tutti è Alma che non riesce a sganciarsi da ciò che è stato affinché possa fare ordine nel suo presente. Casa sua è il mondo perché del mondo è abitante: «vuole rimandare il tempo, rimandarlo indietro là dove i giorni erano intatti, o quasi» (p. 224). In ogni terra in cui ha vissuto, in cui è stata (anche solo per un poco) ha lasciato una traccia della sua esistenza, una scoria della sua inquietudine. Si è fatta manifestazione vivente della geografia del sentimento che non conosce confine e che si riunisce in un unico grande spazio chiamato ricordo.


[1] Saba U. Trieste in Poesia e letteratura iii, in Dell’Aquila M., Angelo Signorelli Editore, Roma, 1979, p.353.

[2] Ivi, p.354.

[3] Morante E. L’isola di Arturo, Einaudi, Torino, 1957, p.26.

[4] Pavese C. La luna e i falò, Mondadori, Milano, 1980, p.3.


Federica Manzon, Alma, Feltrinelli, Milano 2024, 272 pp. 18,00€