Ero piccolo e vedevo gli alberi
parlare alle persone
nessuno rispondeva ma c’era
un bambino, si illuminava
in mezzo ai cespugli
credo fosse armato di cielo
era molto distante
a un certo punto smise di far luce
nel buio calpestato ricordo
gli alberi
cominciarono a dirmi.
(p. 11)
Nella nota che sigilla le 888 pagine del suo ultimo volume, Antonio Bux definisce l’operazione di Poesie (Marco Saya 2024), «una necessaria esigenza di chiudere definitivamente un discorso durato più di un decennio e divenuto ormai troppo più grande anche rispetto al sottoscritto». Si tratta dunque di un libro definitivo («pseudo “opera omnia”») che accorpa e risistema, attraverso una severa selezione, quanto già pubblicato dall’autore in sette ampie sezioni, a tutti gli effetti sette raccolte autonome, o meglio ancora, sette vite precedenti: Neve e sonniferi, Mappe senza una terra, Gemello falso, Abracadabra,Eclissi mantra, Sindrome kamikaze, Due fiumi e un deserto.
La visione di un corpus/corpo che si dilata a dismisura sotto la spinta di un feroce desiderio bulimico, su cui si abbatte il rigore di un soggetto capace di interventi radicali, può essere un buon punto di partenza per addentrarsi nella fitta rete testuale di Poesie. Una dinamica simile, infatti, innesca Gemello falso, unica raccolta costruita intorno a un concept più o meno definito – sorta di unicum nella produzione dell’autore – ovvero lo sdoppiamento. Mettendo in mostra ampi stralci della propria storia individuale, pur senza mai cadere nell’autobiografismo, l’io delinea con nettezza la divisione psico-fisico-esistenziale che si staglia come un motivo costantemente percorso anche nel resto dell’opera.
All’alba chiedo perché questo scisma
d’essere prigione in me oppure un re
senza trono e principessa accanto
ma solo tonnellate di notte e un cielo
artificiale che mi buca la tela
del dipingermi un futuro snello.
Ma l’alba è un calendario per gli altri
per me resta un fatto reale, moltiplicare
nuvole e poi sottrarle, è come il corpo
mio quell’aria sempre più spessa. Passo così
le ore del sonno, a indagare in me stesso
se fuori piove o sono io quello che piango.
(p. 234)
Cantore del trauma (non solo di quanto ci accade, segnandoci, ma anche, e in maniera più brutale, di quanto ci è negato, di ciò che non si è stati) Bux assume l’inespresso di tutta una vita, di una generazione, di un intero territorio in cui la rovina greco-romana emerge nel paesaggio post-industriale devastato dalle mafie imprenditoriali, escludendo una gran massa di individui – di cui l’io si fa portavoce – dal ciclo produttivo, e quindi dalla vita.
Come è stato notato da Federica Maria D’amato in un articolo che chiude la Piccola antologia della critica posta in coda ai versi, il territorio garganico di cui l’autore è originario rappresenta la matrice morfologica di Poesie. Figlio di una regione di grandi autori, il poeta propone il suo personalissimo aggiornamento di una tradizione composita. Attraverso il cosiddetto ermetismo meridionale, ad esempio, vibra nel suo verso l’onda lunghissima della tecnica surrealista, giocata sulla velocità degli accostamenti analogici e sulla potenza della scrittura automatica, nel complesso di una materia espressiva praticamente infinita, anche in virtù di uno strumento metrico-linguistico capace di reggere a ogni sollecitazione ritmica.
Dal cielo troppo pesante di una fede dolorosamente criptata alle profondità inesplorate e insondabili degli ipogei, una linea rossa è tracciata fra due poli d’abisso comunicanti con un quanto mai presente e percepibile mondo dei morti (o dei non-nati). Nello stato mediano della contemplazione allucinata della (propria) esistenza, il frammento vivo da cui prende parola l’io è profondamente impresso in un continuum di alterità, di cui il reale è una pallida traccia.
Forse avere un figlio mi farebbe
dormire. Forse sarei in grado
così di calpestare in società
le mie macchie e pulire.
E potrei sdraiarmi accanto a me
la notte per sparire, e con l’ombra
fare spazio a lui, suggerendo
che non è di fianco a sé
che sopravvive l’altrove
dell’altro, dove brucia l’inizio.
Ma le incertezze della luce
sono già mattino mentre
un’eco avvera il ronzio,
il buio della culla.
(p. 392)
Se il presupposto traumatico apre il campo all’immobilità dell’esperienza poetica, nei versi affastellati di Bux – dove non è raro che brilli l’oro di passi indimenticabili e davvero universali – lavorano un intimo anti-petrarchismo e un nero manierismo contemplativo da monaco punk.
Vicino all’idea di una poesia come ricerca o creazione dell’oggetto eccezionale, più che all’applicazione di una poesia-filtro che distrugga con metodo il reale rivelandone l’inconsistenza, l’autore di Poesie ci consegna un testamento di fede nella possibilità dell’evoluzione individuale. A fronte di una domanda ripetuta con foga di penitente – esisto? – la parabola del libro, cristallizzatasi in una forma che intende chiudere il discorso pluridecennale della propria ispirazione, risponde affermativamente al dubbio di fondo, rivendicando il valore della ricerca artistica come procedimento valido, positivo, vitale, pur nella cupa prospettiva di una disperazione gelida, informata in paesaggi invernali dipinti con violenti tagli di luce.
L’ultima stazione di Poesie sembra portare a compimento la lunga contemplazione dei versi nel senso di un afflato cosmico, atemporale, al di là della dimensione cosciente. Il trauma non è stato superato ma accolto, la rottura si integra alla possibilità di un inizio disponibile all’intuizione del poeta e del dormiente. Sospeso nella pratica della lettura-scrittura come forma di meditazione e ricerca di senso, abituato a scrutare nel buio come William Blake, nel suo provvisorio “congedo” Bux ci parla delle porte che si aprono nella coscienza del lettore. Quello stesso lettore a cui si era rivolto direttamente centinaia di pagine prima, sulla soglia del suo lungo viaggio, con le parole più candide e disarmanti che si possano immaginare.
Dormono i libri accanto ai sogni.
Non sanno di essere quelli,
belli soltanto se dormiamo,
o se qualcuno si risveglia troppo presto,
ecco come apre la pagina sbagliata
il giorno, che aprire la pagina non è svegliarsi,
e dormire è forse scrivere, imparare
a sognare bene gli altri.
Ma gli altri nel sonno non studiano,
fanno giri in capo al mondo, con la testa
piena di vuoti, ritornano dopo.
Nel libro della vita vi sta tutto scritto:
imparato a memoria da chi muore,
è dimenticato per sempre, resta un lume
di disordine che si dorme a testa in giù;
così anche imparare non è nulla.
Basterebbe una stella, da qui al creato,
o un movimento di ossa, a interrompere
i cieli: lì Dio cambia, gira pagina,
e l’essere umano non si sveglia mai.
Ma dormono messaggi dentro i libri.
Sanno di essere persone, non qui,
ma per un pugno fantasma tutta la vita
cercano porte: nessuno sa dove entreranno.
(p. 815)
A. Bux, Poesie, Marco Saya edizioni 2024, €33.