Il protagonista di E tutti danzarono di Alessandro Bertante (La Nave di Teseo, 2025) è Ivan Boscolo, professore universitario di mezza età alcolista e dipendente da xanax, che vive la noia dell’estate in una Milano afosa (Estate crudele, titola un altro libro di Bertante). Ivan è nostalgico e immagina il declino di una città che stenta a riconoscere, decadenza presto materializzata in un immenso rave nelle strade del centro. La festa non è però come tutte e si trasforma in un delirio maniaco nel quale migliaia di ragazzi rimangono intrappolati, preda di un’ossessione che li costringe a ballare fino allo sfinimento. Tra loro c’è la figlia Micol, di cui Ivan andrà alla disperata ricerca assieme alla ex moglie Francesca.
Il libro si apre con Ivan che si trova nella casa del padre, morto due settimane prima, come Michel all’inizio di Piattaforma di Houellebecq. Non è un caso. Il protagonista è infatti un personaggio houllebecquiano: nostalgico, disilluso, pessimista, colto e non geniale, misantropo ma senza cattiveria. Le prime quaranta pagine sono un calco fedele dell’immaginario dello scrittore francese. Annoiato e abitudinario, Ivan si trascina senza speranze nella misera quotidianità di uno scapolo abbastanza intelligente da poter riflettere su di sé ma non sufficientemente integrato da prendere con leggerezza il mondo che lo circonda.
Non manca la nostalgia per una giovinezza che non c’è più: «pensavo ai decenni che non finiscono mai e tornano, tornano ogni volta più sbiaditi, fino a che non si distinguono più fra di loro e la vita sembra non avere avuto mai nessuno strappo e nessuna differenza ma solo una serie di abitudini poco attraenti». Vige insistente l’incerta fiducia nel presente che scolora appena viene abbozzata: «forse c’è ancora speranza, pensai non troppo convinto», riflette Ivan dopo aver visto dei ragazzi fumare marijuana sul tram. Non manca l’ammiccamento pedofilo per la ragazzina che gli vende la birra e le patatine al baracchino di Acquabella: «il sudore […] che invece si allargava ampio sotto al piccolo seno da cui si vedevano chiaramente spuntare i capezzoli, in pressione sulla maglietta di almeno una taglia più piccola». Gli ingredienti houllebecquiani, lo squallore, i corpi turgidi, la noia, il degrado, il sapere tediato dell’Occidente, e – come vedremo – anche la fiducia nell’amore così esaltato in Serotonina, reggono da cima a fondo la trattazione tematica orientata alla reazione di Bertante.
Anche la scrittura, secca e aderente, ricca nella sua semplicità, ricorda quella dello scrittore d’oltralpe. Mai sporca – pregio certo raro –, la sintassi costruisce una solida struttura testuale che lascia l’occhio riposato e titilla la curiosità del lettore, sempre piacevolmente rilanciato alla riga successiva, alla pagina che segue, al capitolo che verrà. Le analisi sociologiche, i commenti, i borbottii, non sono invadenti, non ingombrano la pagina, ma si alternano fluidamente al susseguirsi delle azioni, dando colore alla prosaicità esistenziale tutt’altro che eccezionale di Ivan.
Altri elementi funzionano però meno bene: ad esempio le ripetizioni, e le sinonimie che cercano di nasconderle, come «ballerini», «danzatori», «ossessi», «ammaliati» che dilagano nel capitolo “Francesca”, stridendo a livello lessicale con la cura complessiva del testo. Errori ortografici diffusi e poco perdonabili (correttori bozze, editors, revisori disattenti, si dirà. Sia: imputiamo allora La Nave di Teseo). Descrizioni che, individuate in capoversi unici e isolate a livello semantico, scivolano nel patetico («Lei mi strinse ancora più forte e mi baciò sul collo»), congiunte a verticalità rischiose, e non sempre azzeccate, come nella riga che precede quella citata: «La strinsi forte unendomi al suo sudore di madre angosciata nei giorni più caldi della storia del mondo».
Tuttavia, più problematico perché non rimanda a una questione solo formale è il fatto che la prospettiva di Ivan pecca di didascalismo, specificando più del dovuto – fino a irritare il lettore attento – il senso di un’espressione, la natura di un luogo, le ragioni di un’azione. Così Francesca si mette a camminare nella giusta direzione senza nemmeno rifletterci un attimo perché «conosceva bene il parco Sempione perché con le compagne di classe andava a farsi le canne nel pratone sotto al castello come la maggior parte degli studenti milanesi». Oltre a essere inutilmente pedante, la scrittura qui rispecchia fedelmente l’ottica reazionaria con cui Ivan, individuo ormai sciolto dalla società, legge i segni del presente. Questi sono comprensibili all’occhio del narratore-protagonista solo alla luce delle sue esperienze pregresse, o delle esperienze pregresse dei personaggi connotati. Il presente è insomma ridotto a pretesto per raccontare il passato: «catturato da una Madeleine ribalda e assolutamente inopportuna data la tragicità del momento, mi vennero in mente gli anni novanta […] L’emozione dei ricordi durò davvero pochi istanti, in quel momento stavo viaggiando verso l’ignoto di una notte di tregenda». Lo straniamento progressivo di Ivan dalla realtà che lo circonda – «sono indifeso e fuori dal tempo presente in un mondo che non riconosco più come mio» – si deve per lo più a questo attaccamento a un sapere inservibile, resto fossile costretto in subordinate superflue. Insomma, a interessare il protagonista sembra la discrasia tra ciò che conosce e ciò che vede, ciò che ricorda e ciò che sente, e non l’Evento che gli si para davanti.
Il libro cambia il proprio ritmo nel momento in cui fa l’ingresso in scena la massa danzante dei ravers. Qui il maestro Houellebecq viene abbandonato e si apre il racconto, con gli avvenimenti che crescono in intensità. Le sirene e i celerini, i black block infiltrati, gli elicotteri e i droni, la calca e i primi festaioli che cominciano a stramazzare a terra dilaniati dal caldo e dalla danza ininterrotta aumentano l’angoscia di Ivan e di conseguenza la tensione narrativa. La scomparsa della figlia, che non risponde al telefono, riorienta il romanzo e riattiva le forze sopite del professore di letteratura. Padre mosso dall’amore, e non più borghese che assiste da brillo al naturale decadimento del mondo occidentale, Ivan comincia la sua traversata tra le forze del male nell’estremo tentativo di salvare Micol.
Forze del male, perché la folla catatonica che danza muta per Milano è il simbolo della ripetizione infinita, energia tendente all’entropia, al disfacimento collettivo. Non è una festa, ma un «rave apocalittico» quello che va in scena tra Porta Venezia e Parco Sempione, tra il giardino Indro Montanelli e San Babila. E le forze del bene, la polizia, più che arginare esaltano il caos, vi contribuiscono con i loro interventi cechi e violenti.
Apocalissi, rivelazione che non rivela poi nulla se non, tra le linee, le debolezze di una generazione, quella di Ivan, fattasi abbindolare dal mito del progresso e incapace di rivoltarsi, prima di lasciare un carico insostenibile, spirituale e materiale, alla generazione seguente. Da cui la necessità tutta politica – e in fondo parecchio debole – di mostrare che i giovani non colpiti dalla mania sono i rivoltosi, che spaccano le vetrine dei grandi marchi e rubano, e i criminali, che si danno a stupri collettivi. Da una parte l’anarchia senza idee, dall’altra la bruta violenza. L’unica altra isola del vecchio mondo che viene risparmiata dall’epidemia festosa è la fila di poveri alla mensa dell’Opera di San Francesco, immagine fugace di una carità impossibile nella degenerazione imperante.
Pure le riflessioni dell’antropologo professore universitario amico di Ivan, riassunte nel capitolo “Il professor Slaviero”, sono un inserto dal sapore posticcio, e non solo per ragioni di struttura del romanzo. La piaga del Ballo del 1518 è il precedente individuato da Slaviero: un fenomeno di “isterismo collettivo” attestato storicamente ma dalle cause non chiarissime, in cui un centinaio di abitanti di Strasburgo si misero a ballare per settimane, alcuni fino alla morte. Ricondurre il rave di Milano al caso del 1518 è il modo con cui Ivan tenta, attraverso il racconto del suo collega, di spiegare ciò che non è razionalizzabile con i propri criteri, etichettandolo come irrazionale. Ivan e la sua generazione sono esclusi a priori dalla follia, e non solo perché la mania che costringe gli uomini a danzare colpisce solo gli under 30, come una sorta di virus generazionale (i giovani, qualcuno pensi ai giovani! Come non leggere tra le righe un piagnucolante paternalismo o, forse peggio, un disprezzo generazionale?). I compagni di Ivan, tutti medio colti e di mezza età, come l’antropologo e il giornalista che apparirà verso la fine del romanzo, nonché la moglie, sono depositari di una conoscenza ragionevole che impotente osserva le proprie categorie annichilirsi di fronte all’avvenire dell’irrazionalità.
L’invenzione allucinata e ipnotica da fiaba nera (genere già esplorato da Bertante in altri suoi lavori) della massa di zombies che incarna l’apocalissi rimane la grande forza di questo romanzo. Nonostante le imperfezioni rilevate, stilisticamente e narrativamente il testo funziona nella sua costruzione immaginifica; pure ci si chiede se il mito fiabesco non richiuda ciò che con forza ha aperto. Il limite maggiore di questo libro è infatti che non pensa con gli zombies ma solo con quello che gli zombies si sono già comunque portati via. Per dirlo con altre parole, l’eroe di questo libro non è all’altezza del destino fiabesco che è, come aveva intuito Cristina Campo in un saggio de Gli imperdonabili, tensione all’impossibile: «di certe pesche si dice in italiano che hanno “l’anima spicca”, il nocciolo, cioè, ben distaccato dalla polpa. A spiccarsi del pari il cuore dalla carne o, se vogliamo, l’anima dal cuore, è chiamato l’eroe di fiaba, poiché con cuore legato non si entra nell’impossibile».
Contrapporre l’amore filiale e matrimoniale, ultima mossa à la Houellebecq di Bertante, alla cocciuta esasperazione di una mania acefala, è strumento retorico che si illude di aver spiegato l’apocalissi consegnandola alla sua miracolosità evenemenziale di fronte alla quale si rimarrebbe comunque impotenti. La questione non è solo che l’amore, come ha scritto una volta Rimbaud, dev’essere sempre reinventato; ancora di più, esiste negli zombies una forza che l’umanesimo religioso attaccato al feticismo dell’amore familiare è forse incapace di vedere. Il libro si chiude infatti così: «Guardo Francesca con tutto l’amore possibile. Una nuova alba svanisce mentre il nuovo mondo si palesa minaccioso. Non so se riusciremo ancora a raccontarlo». Senza la forza crepuscolare e quindi sorgiva di Lászó Krasznahorkai, si rilegga la fine di Melancolia della resistenza, la chiosa con la famiglia riunita ad affrontare il disastro dei tempi a venire dice solo che questo modo borghese del racconto sarà da domani impossibile, ma non dice in fondo nulla sul futuro del raccontare.
Ci si chiede infine se non esista un’altra immagine della festa, capace di rendere conto di quello che Bertante si ostina a non vedere: il futuro. La festa non è solo ripetizione insensata, ma anche ciò che migliaia di ragazzi in Europa stanno usando oggi per abitare una realtà sempre più difficile e per immaginarsi come stare insieme, come amarsi, in maniera differente. Gli zombies (esistono veramente: sono i ragazzi che nei clubs, ogni giorno, a migliaia, inalano ketamina e ballano allo sfinimento) sono la fine del Pensiero Universitario, del Sapere Causale, ma annunciano anche, se raccontati propriamente, la nascita di un pensiero bastardoche segue le venature materiali del mondo in trasformazione piuttosto che rinchiudersi, impaurito, in un passato ideale. Istupidimento nichilistico e sperimentazione di nuove forme di vita convivono nella festa: se isolare il secondo è ingenuo, vedervi solo il primo è niente di più che moralismo.
Il problema non è la sensazione permanente che Bertante non abbia mai preso parte a una festa, né in uno scantinato di Berlino né nelle campagne del Sud della Francia. Non è una questione di realismo, ma di cosa facciamo con la letteratura, la cui unica morale, scriveva Milan Kundera ne L’arte del Romanzo, è la conoscenza. Che cosa ci dice la massa catatonica che ogni weekend si riversa per le strade delle metropoli europee? “E tutti danzarono” rischia di essere davvero solo la sterile espressione di una vaga nostalgia, lusso insostenibile per chi vive realmente in tempi difficili. Intravedendo la possibilità che non esista altro che la festa, rito minimale che mima il vortice delirante degli elementi cosmici, il pensiero dovrebbe insomma farsi reale fabula, conoscenza della danza che solleva la marcia della morte in massa festiva, come quella descritta da Elias Canetti in Massa e potere:
vita e piacere sono assicurati durante la festa. Molti divieti e molte separazioni sono stati aboliti, accostamenti del tutto inconsueti vengono consentiti e favoriti. L’atmosfera per il singolo è di rilassamento e non di scarica. […] Non c’è una meta comune a tutti, che tutti insieme dovrebbero raggiungere. La “festa” è la meta, ed essa è stata raggiunta. La concentrazione è molto alta, ma l’uguaglianza è per buona parte uguaglianza di arbitrio e di piacere.

Alessandro Bertante, E tutti danzarono, La Nave di Teseo, Milano 2025, 160 pp. 17,00€