In attesa della cerimonia di premiazione della XLI edizione del Premio Narrativa Bergamo, che si terrà sabato 3 maggio alle ore 18 al Teatro alle Grazie di Viale Papa Giovanni XXIII, proponiamo delle brevi interviste con i cinque autori finalisti. Tocca oggi a Dario Voltolini, in cinquina con Invernale (La Nave di Teseo 2024).
Invernale è un racconto sul padre, ma forse, soprattutto, un racconto sul decadimento di un corpo, sotto i colpi di un trauma prima, e di una malattia poi. Per raccontare questo processo, soprattutto nella seconda parte del racconto, si ricorre in maniera privilegiata alla metafora bellica («il generale Vincristina»), una metafora ricorrente, anche nel linguaggio comune, e che secondo alcuni pone dei problemi rispetto all’interpretazione della malattia che suggerisce (il paziente come un guerriero che deve resistere). Come mai hai deciso di ricorrere in maniera così esplicita a questa metafora?
Non so se ci sono riuscito, però quello che ho tentato di fare è stato proprio di modificare e di manomettere questa metafora bellica: all’immagine di un paziente-guerriero che combatte contro il male-nemico ho cercato di sostituire quella di un paziente-campo-di-battaglia su cui si scontrano l’esercito-farmaco e l’esercito-malattia. Ho cercato di allestire il punto di vista, per così dire, della piana di Waterloo su cui Wellington e Napoleone se le suonano di santa ragione senza andare tanto per il sottile quanto alla salvaguardia del paesaggio. In questa prospettiva ovviamente si parteggia totalmente per il generale Vincristina contro l’aggressione delle truppe di Sarcoma, accettando quindi l’impatto devastante che anche l’esercito buono ha sul territorio dello scontro. Questo per non dimenticare la brutalità che un paziente deve necessariamente mettere in conto di sopportare in relazione agli effetti collaterali della cura.
Un altro tema che ritorna in maniera ricorrente all’interno del racconto è quello calcistico: grande passione sportiva che unisce il figlio al padre, per quest’ultimo rappresenta anche un aspetto importante del passato e, soprattutto, un terreno che permette di mettere in luce aspetti significativi del suo carattere. Quale funzione hai pensato di affidare ai riferimenti calcistici? Metaforica?
In primo luogo i riferimenti calcistici hanno il ruolo “realistico” di costruire la figura del padre, per il quale aver giocato, sebbene solo nelle giovanili, insieme a talenti sportivi di altissima classe (Sivori su tutti), è stato un fatto biograficamente (direi: artisticamente e cognitivamente) importante. Sul piano metaforico il tema calcistico, insieme al quello del mestiere di agnellaio, configurano due aspetti in cui mio padre era tecnicamente esperto e padrone assoluto, mentre al contrario nell’affrontare l’impatto della malattia ha dovuto fronteggiare una situazione di totale spaesamento e assenza di riferimenti delegando la gestione della propria vita ad agenti esterni (e a risorse interne fino a quel momento latenti): questo è, non solo per lui ovviamente, il grande cambiamento esistenziale che occorre affrontare in certe circostanze e che ho cercato di raccontare.
Nel corso del racconto gli avvenimenti si susseguono, il tempo scorre e le fatiche fisiche del padre si accumulano, trasformando la sua vita. L’attenzione di chi narra, tuttavia, si appunta sui processi interiori, sulle dinamiche psicologiche o addirittura percettive che vengono condizionate dal progredire del decadimento fisico. Questa prospettiva finisce per annullare i rapporti causali tra gli eventi: non si ravvisa un tentativo di ricostruire i meccanismi di causa-effetto, di attribuire responsabilità o ridefinire genealogie. Il racconto, in sostanza, non sembra orientato a “farsi una ragione” di quanto è successo, ma semmai a capire “come” è successo. È stata una scelta predeterminata? E nel caso, cosa l’ha determinata?
Vero. Il racconto non mira, posto che ciò sia davvero possibile, a “farsi una ragione”, anche perché lo scandalo esistenziale dell’intreccio inestricabile di vita e morte, così contemporaneamente naturale e enigmatico per noi, da qualunque parte lo si guardi mantiene comunque un aspetto misterioso e irriducibile alla ragione. Alla fine possiamo solo rispettarlo meglio che possiamo, nel caso di uno scrittore scrivendone meglio che può. Ho cercato di dare spazio anche a tutto il fiorire di vita che innerva il tempo della malattia, non solo al mero decadere fisico, ma anche alla dignità e alla forza che emergono in certi frangenti decisivi. Sul “farsi una ragione della nostra vita” credo che una parola radicale l’abbia scritta il grande poeta Wallace Stevens, che nella sua ultima poesia dice: «Sai allora che non è la ragione/a farci felici o infelici».
Ma anche capire “come” è successo direi che esula dal mio racconto. Credo che forse il mio tentativo sia stato soprattutto quello di raccontare “cosa” è successo, o anche semplicemente (si fa per dire) “che” è successo.
Infine, una domanda leggera, che rivolgiamo sempre ai finalisti del Premio Bergamo: quale tratto del tuo libro pensi possa farlo vincere?
Che sia benvenuta la domanda leggera! Per rispondere a tono citerò il mitico allenatore Nereo Rocco, che a chi gli disse, prima di una partita: “Vinca il migliore!”, rispose: “Sperem de no!”
Foto dell’autore: (c) Paola Mongelli Portraits.