[di Andrea Raimondi e Jansan Favazzo]

Filosofia della letteratura (Mimesis 2024) è la versione italiana, a cura di Lorenzo Graziani, del volume di Peter Lamarque Philosophy of Literature (John Wiley & Sons, 2008), tradotto dallo stesso Graziani e da Matteo Gozzi. Si tratta di un’introduzione alla disciplina che può forse stupire una parte del pubblico italiano. L’elemento di sorpresa, per chi non ha familiarità con una certa tradizione filosofica, è presto detto: il testo si accosta alla critica letteraria e alla teoria della letteratura con il metodo e gli strumenti della filosofia analitica.

Dopo un breve saggio introduttivo di Massimo Rizzante, l’introduzione all’edizione italiana a cura di Graziani, e la prefazione all’edizione italiana scritta dallo stesso Lamarque, il libro si apre con la prefazione all’edizione originale, seguita da sette capitoli. Il primo capitolo esamina il rapporto tra filosofia, teoria della letteratura e critica letteraria, e si sofferma sulla domanda se le opere letterarie abbiano qualità estetiche e se si possa parlare di piacere estetico in relazione alla fruizione di queste opere. Il secondo capitolo si interroga sulle caratteristiche distintive della letteratura, sostenendo una versione della teoria istituzionalista (che riprendiamo sotto). Il terzo capitolo affronta il dibattito sul concetto di autore, oggetto di profonde critiche nel secolo scorso. Il quarto capitolo analizza gli interessi comuni dei lettori nell’approcciarsi alla letteratura come forma d’arte, con particolare attenzione al rapporto tra interpretazione e apprezzamento estetico di un’opera. Il quinto capitolo presenta una panoramica delle principali risposte della filosofia analitica alle questioni legate alla natura della finzione: come vanno intesi i personaggi fittizi? Se sono entità, che tipo di entità sono? E come possono i lettori sviluppare un coinvolgimento emotivo nei loro confronti pur essendo consapevoli del loro essere mere invenzioni? Del rapporto tra verità e finzione si occupa invece il sesto capitolo, dove si discute se le opere letterarie possano costituire strumenti di conoscenza. Infine, l’ultimo capitolo affronta il tema del valore delle opere letterarie e della sua relazione con l’interpretazione di queste e l’etica.

I principali nuclei tematici affrontati da Lamarque sono discussi con tono imparziale, lasciando emergere con chiarezza costi e benefici delle diverse prospettive. Questa impostazione misurata ha il merito di rendere il libro un testo ideale per chi desideri una panoramica esaustiva sui problemi più discussi, oggi, in filosofia della letteratura.

Ci sono tuttavia alcune scelte preliminari, ma non per questo meno centrali, che rivelano con precisione il punto di vista di Lamarque. Nel seguito, ci concentreremo su due di queste scelte.

In primo luogo, l’autore dedica molto spazio alla definizione dell’oggetto di cui, a suo parere, dovrebbe occuparsi la disciplina filosofica che dà il titolo al libro: la letteratura in quanto particolare forma d’arte. Questo punto, all’apparenza innocuo, distingue nettamente l’approccio di Lamarque da quello fatto proprio dalla cosiddetta Teoria letteraria. Con questo termine (nell’originale inglese, “Literary Theory”) si indica una serie di approcci critici alla letteratura che hanno goduto di grande popolarità negli anni ’70 e ’80, tra cui lo strutturalismo, il marxismo, il femminismo, il post-modernismo e il post-colonialismo. Le diverse varianti della Teoria letteraria hanno in comune proprio il rifiuto dell’idea di letteratura come arte e, in seconda istanza, della rilevanza della filosofia analitica in qualsiasi indagine di ambito letterario.

A questo proposito andrebbe notato, più di quanto faccia Lamarque, che la scelta di una definizione di “letteratura” è indipendente dall’approccio che si adotta per affrontare questo o quel problema di filosofia della letteratura, almeno in alcuni casi. Ad esempio, capire cosa sia la finzione o stabilire se le intenzioni dell’autore contino nell’interpretazione di un’opera sembrano questioni indipendenti dalla disputa sulla letteratura come forma d’arte e dalle sue possibili soluzioni.

Anche la seconda scelta teorica di Lamarque riflette una presa di posizione ben precisa. Il filosofo lavora con una nozione ristretta di letteratura che sembra voler escludere dall’ambito dell’indagine filosofica le opere che abbiano per unico scopo il mero intrattenimento. Infatti, il criterio adottato da Lamarque per classificare un’opera come letteraria è quello di avere “una certa serietà morale” o “l’aspirazione a trattare temi universali” (p. 87). L’essere un esempio di “bello stile”, invece, è per Lamarque tutt’al più una qualità che molte opere letterarie possiedono, ma non una caratteristica necessaria né sufficiente: Churchill scrive bene ma non è letteratura, con buona pace dell’Accademia di Svezia che gli ha conferito il Nobel (p. 83).

La preferenza di Lamarque per una nozione ristretta di letteratura caratterizza il suo approccio rispetto ad altre voci nel dibattito di area analitica, che privilegiano un’accezione di “letterario” quanto più neutrale possibile. Christopher New, per esempio, nel suo Philosophy of Literature. An Introduction (1999), si preoccupa di distinguere subito il problema di cosa sia letteratura dal problema di cosa sia buona letteratura, assegnando priorità logica al primo. Allo stesso modo, in Of Mind and Other Matters (1984), Nelson Goodman era andato a caccia dei “sintomi” esibiti da un’opera d’arte, non da una buona opera d’arte: se confondiamo le due indagini siamo “irrimediabilmente spacciati. Perché, sfortunatamente, le opere letterarie sono per la maggior parte brutte”. Non a caso, lo stesso Goodman propone di sostituire la domanda “Che cos’è l’arte?” con un più modesto, ma forse più fecondo, “Quando è arte?”.

In effetti, l’accezione ampia di “letterario” è particolarmente compatibile con una posizione anti-essenzialista: non c’è un’essenza della letteratura da ricercare, una definizione di “letterario” da fissare in termini di condizioni necessarie e sufficienti. Dobbiamo limitarci a esplorare i diversi usi della parola e registrare le somiglianze di famiglia (o, al più, costruire una definizione disgiuntiva). Al contrario, Lamarque difende una posizione essenzialista dentro la cornice della cosiddetta teoria istituzionale dell’arte. In una delle sue versioni più radicali, questa teoria (ispirata agli scritti di Danto e Dickie; si vedano il saggio The Artworld del primo e, del secondo, il volume Art and Aesthetic: An Institutional Analysis) sostiene che il carattere artistico di un’opera dipende esclusivamente dal suo riconoscimento da parte di una “istituzione”. Nel caso letterario, questo termine è inteso applicarsi a scuole, accademie, case editrici e media, che (secondo la teoria in questione) stabiliscono pratiche, convenzioni e norme per stabilire quali prodotti cadano sotto il concetto di letteratura.

Dunque, la posizione essenzialista di Lamarque può essere così riassunta: l’essenza della letteratura non va ricercata in presunte proprietà intrinseche dei testi letterari, bensì in certe proprietà relazionali che questi ultimi intrattengono con l’istituzione rilevante (nel senso sopra specificato).  Secondo questa posizione, le opere letterarie sono oggetti fondamentalmente istituzionali, non-naturali, esattamente come, ad esempio, le valute: il fatto che un determinato pezzo di carta sia una banconota da dieci euro o da venti sterline britanniche dipende dal riconoscimento di specifiche istituzioni – ad esempio, dalle norme e pratiche stabilite da enti come banche e governi.

Ora, se le opere letterarie sono oggetti che devono la loro letterarietà a un’istituzione e se questa sollecita e premia un tipo specifico di apprezzamento (che varia al variare del contesto storico e culturale), allora, nota Lamarque, “il loro valore entro le norme dell’istituzione si baserà sul modo in cui esse soddisfano queste aspettative convenzionali” (p. 402). In questo senso, il valore letterario di un’opera è definito dall’istituzione e relativo ad esso.

La nostra impressione è che l’adozione della teoria istituzionale generi una tensione tanto con la nozione ristretta di letteratura proposta da Lamarque quanto con il suo approccio essenzialista. Il secondo tipo di tensione è presto chiarito: se ciò che rende letteraria un’opera è la sua relazione con le istituzioni letterarie, sembra che la definizione stessa di letteratura presupponga una qualche nozione di letterarietà, quella che ci permette di identificare le istituzioni rilevanti.

Per quanto riguarda il primo tipo di tensione, possiamo ragionare così. Da una parte, come si è precisato prima, Lamarque sostiene che un’opera è da considerarsi letteraria solo se soddisfa criteri come l’esemplificazione di serietà morale o la capacità di affrontare temi di portata universale. Dall’altra, la teoria istituzionale non impone restrizioni su cosa le istituzioni rilevanti possano riconoscere come letteratura. Ora, consideriamo il caso ipotetico in cui tali istituzioni riconoscano come letteratura un’opera priva delle qualità richieste dal filosofo. Lamarque si troverebbe di fronte a un dilemma: accettare il riconoscimento istituzionale, sacrificando la sua nozione ristretta di letteratura, o negare tale riconoscimento, contraddicendo la teoria istituzionale stessa. Vi è dunque un conflitto tra il carattere prescrittivo dell’approccio essenzialista proposto dall’autore e la natura descrittiva e flessibile della teoria istituzionale. Forse quest’ultima funzionerebbe meglio se si abbandonasse tanto la vis definitoria quanto la nozione ristretta che guidano le riflessioni di Lamarque.

Per concludere, è interessante accennare a uno dei temi più discussi negli ultimi decenni e al modo in cui trova una collocazione in questo libro. Un’ampia parte del dibattito analitico in filosofia della letteratura verte sulla rilevanza delle intenzioni autoriali nell’interpretazione dei testi letterari – nella Prefazione all’edizione italiana, Lamarque si spinge a definirla una “ossessione”. I punti più notevoli nella sua ricostruzione ci sembrano due. In primo luogo, viene offerta un’analisi puntuale della tesi sulla “morte dell’autore” (ripresa da un suo precedente articolo, “The Death of the Author: An Analytical Autopsy”, 1990), che mostra con chiarezza i limiti di un anti-intenzionalismo estremo. In secondo luogo, si enfatizza il nucleo intuitivo di entrambe le alternative teoriche: per l’intenzionalista è ovvio che le intenzioni dell’autore debbano rappresentare un vincolo alle nostre pratiche interpretative; per l’anti-intenzionalista è altrettanto ovvio che l’opera debba parlare per sé stessa, a prescindere da quel che avrebbe voluto l’autore. È curioso osservare, come fa Lamarque, che il problema teorico incide poco sulla pratica: nella maggior parte dei casi, ciò che l’autore intendeva coincide con ciò che è ricostruibile a partire dalle sole evidenze testuali. Insomma, il testo letterario è spesso incurante degli scrupoli filosofici.

Ci sono casi particolari, però, in cui ha senso interrogarsi sulla relazione tra intenzioni dell’autore e interpretazione del testo. Un esempio significativo, discusso da David Lewis in un famoso articolo sul problema della verità nella finzione (“Truth in Fiction”, 1978), riguarda L’avventura della banda maculata di Conan Doyle. In questo racconto, Sherlock Holmes dimostra come la vittima di un omicidio sia stata uccisa da una vipera di Russell, la quale si sarebbe arrampicata lungo la corda del campanello per raggiungerla. Oggi sappiamo che le vipere di Russell, non essendo serpenti costrittori, non possono utilizzare il movimento a fisarmonica necessario per scalare superfici verticali. Di conseguenza, secondo le conoscenze attuali, sarebbe impossibile che la vipera descritta nel racconto abbia davvero commesso l’omicidio.

Ora, dovremmo considerare il caso, all’interno della finzione, come non risolto? Molti risponderebbero di no. La ragione risiede nelle intenzioni dell’autore: non vi sono indizi testuali che suggeriscano che Conan Doyle intendesse discostarsi dalle credenze diffuse all’epoca in cui scriveva o, quantomeno, dalle credenze sui comportamenti delle vipere di Russell. Pertanto, è plausibile supporre che non avesse questa intenzione. Ciò sembra sufficiente per concludere che il racconto debba essere correttamente interpretato come una storia in cui Sherlock Holmes ha effettivamente risolto il caso. Le obiezioni dell’anti-intenzionalista non basteranno a farci dubitare dell’infallibilità del nostro eroe.


P. Lamarque, Filosofia della letteratura, ed. it. a cura di L. Graziani, Sesto San Giovanni, Mimesis, 2024, 486 pp., € 35.