Durante le feste di Natale, amici e parenti, oltre alle classiche domande di rito, mi chiedevano cosa stessi leggendo. Di fronte alla risposta Martire! di Kaveh Akbar i più sgranavano gli occhi e scuotevano la testa perplessi. Eppure il concetto di martirio, benché spesso associato negativamente al sacrificio estremo in nome di un ideale di matrice islamica estremista, non è poi così estraneo alla cultura e alla religione cristiana. La Chiesa cattolica onora i suoi martiri, uomini e donne che hanno lottato per difendere il proprio credo. Spesso i santi diventati più celebri sono stati quelli più ferocemente perseguitati, coloro che non hanno barattato la fede con la sopravvivenza.
Dunque, lo scrittore Kaveh Akbar in questo suo scoppiettante esordio nella narrativa ci parla di religione? Sì e no.
Nel suo romanzo, Akbar, scrittore americano di origine iraniana, stimola una riflessione sul concetto di martire ma soprattutto su cosa significhi sacrificare tutto in nome di un ideale politico, dell’arte, dell’amore, oltre le convenzioni socialmente imposte. Akbar non ci offre alcuna lezione di storia delle religioni, non è uno storico né un filosofo, non spetta a lui definire cosa sia giusto o sbagliato. Akbar nasce come poeta. È autore di due raccolte pluripremiate – Calling a Wolf a Wolf del 2017 e Pilgrim Bell del 2021 – e il suo Martire! è stato selezionato tra i finalisti del National Book Award e considerato un best seller dal New York Times nel 2024.
Al di là del titolo spiazzante e nonostante affronti temi come il lutto, la dipendenza, l’autolesionismo e il disturbo post-traumatico, Martire!, pur nella sua immensa tragicità, è un libro divertentissimo, sperimentale e affascinante da molteplici punti di vista.
Partiamo dal suo protagonista. Cyrus Shams è uno studente universitario americano di origini iraniane, è orfano e fortemente dipendente da narcotici – «Xanax, Adderall, Ambien, Neurontin, Flexeril, ogni nome un fiore alieno» – e da alcolici pesanti. Cyrus è alla ricerca del senso profondo della vita e soprattutto vorrebbe rintracciare qualche tipo di significato nella morte di sua madre che è stata vittima di un terribile disastro aereo quando lui era solamente un neonato. «…per tutta la vita non ho fatto che pensare a mia madre su quel volo, a quanto sia stata insignificante la sua morte. […] La differenza tra il 290 e 289 morti. È un dato attuariale. […] Ci deve essere una definizione della parola che possa fare al caso suo. È questo che sto cercando».
Quando non è impegnato con le lezioni all’università o a mantenersi con lavoretti di giardinaggio per soggetti strampalati, Cyrus progetta di scrivere un libro, un’opera che possa celebrare la vita dei martiri più noti della storia, da Qu Yuan, a Giovanna d’Arco e Bobby Sands. Alcuni estratti dal file LIBRODEIMARTIRI.docx appaiono a più riprese nel romanzo.
«Ho deciso di scrivere un libro di elegie per persone che non ho mai conosciuto. Sì, c’è un’imperdonabile hybris nel mio immaginare un elemento qualsiasi della loro vita, e nel ritenere di poterne scrivere. C’è della hybris anche nello scrivere di qualsiasi altra cosa».
Akbar cosparge il testo di appunti e poesie trasmettendo al lettore l’illusione di avere un accesso diretto al suo file di scrittura. Questi frammenti non sono però gli unici elementi che si affiancano alla linea narrativa principale. In Martire! troviamo racconti di sogni in cui appaiono Lisa Simpson e Donald Trump alias «il Presidente Invettiva», così come spezzoni di notiziari in cui si riportano informazioni relative all’incidente aereo in cui Roya, la madre di Cyrus, ha perso la vita. Il romanzo di Akbar è un’opera polifonica che rende giustizia ai diversi personaggi che popolano la vita di Cyrus offrendo una narrazione variegata dal punto di vista dell’orizzonte temporale e dello spazio geografico.
Siamo in Indiana tra i banchi universitari e i locali a tinte fosche dove Cyrus e Zee Novak, suo coinquilino e poi amante, si conoscono; voliamo nell’Iran degli anni Ottanta con la madre e lo zio. Poi torniamo nel presente, a New York, per assistere all’installazione performativa di un’artista di fama mondiale, intitolata Morte-Parla. L’artista in questione, Orkideh, malata terminale, ha deciso letteralmente di vivere nel Brooklyn Museum fino alla fine dei suoi giorni, attaccata al respiratore, rimanendo a disposizione di chiunque vorrà scambiare due chiacchere con lei. Le sue intenzioni sono chiare: «Volevo stare fuori, davanti, con le persone. Tutti noi stavamo morendo, ricordavo loro. Io stavo solo morendo più velocemente».
È proprio questo soggiorno di pochi giorni a New York che sarà rivelatore e illuminante, sia per il protagonista che per il lettore. L’incontro con la pittrice iraniana Orkideh rappresenterà la conclusione simbolica e concreta del viaggio di Cyrus nel dolore e nell’inesorabilità della perdita, ci farà meditare sul senso della fede, della religione, della guerra e dei desideri più tenaci. Il tema delle ambizioni nel mondo della scrittura e dell’arte abbraccia i passaggi del testo che ho trovato maggiormente riusciti e universali. Ogni personaggio ha la sua ragione di vivere, di morire ed eventualmente rinascere in una forma diversa. Cyrus scrive poesie ma non riesce comunque a definirsi un poeta per un innato senso di pudore.
È consapevole della responsabilità che accompagnerebbe tale definizione e lui non è in grado di assumersi questo peso: è più semplice continuare ad essere «l’ex alcolista triste in Indiana che parla di fare lo scrittore». Come tutti gli artisti, Cyrus vive fortemente diviso. Da un lato è divorato dalla frustrazione di chi sa che le parole scritte non riusciranno mai a riprodurre fedelmente «il lutto o il dubbio, la gioia o il sesso o quello che è», ma allo stesso tempo si adopera con tutto se stesso per riuscire a fare la differenza, a contare più degli altri sia da vivo che da morto.
Specularmente, tramite la figura di Orkideh, con cui Cyrus si intrattiene a più riprese dentro al museo, Akbar ci riporta sul concetto della fortuna e della dedizione artistica in senso lato che molto probabilmente riecheggia anche la sua esperienza personale di formazione, integrazione e affermazione come scrittore iraniano negli Stati Uniti. «E’ semplice per le persone che non hanno sacrificato nulla razionalizzare la loro vita ordinaria definendomi fortunata. Ma io ho sacrificato la mia intera esistenza; l’ho venduta all’abisso. E l’abisso mi ha dato l’arte».
Martire! in definitiva non ci dice molto dei santi veri e propri, che facciano parte della tradizione cristiana o di quella musulmana, ma esprime a meraviglia, con un linguaggio spassoso e ritmato, creando un universo di personaggi coerenti, il senso del sacrificio, che sia per una persona amata, per la patria o per l’arte. In fin dei conti, di cosa si vive e per cosa si è disposti a morire?

Kaveh Akbar, Martire!, traduzione italiana di C. Spaziani, La Nave di Teseo, Milano 2024, 446 pp., € 22.