In attesa della cerimonia di premiazione della XLI edizione del Premio Narrativa Bergamo, che si terrà sabato 3 maggio alle ore 18 al Teatro alle Grazie di Viale Papa Giovanni XXIII, proponiamo delle brevi interviste con i cinque autori finalisti. Dopo Dario Voltolini, tocca oggi a Bruno Pischedda, in cinquina con Muster. Una giovinezza fantastica (Zacinto 2024).


Umberto Beretta detto Muster è un personaggio dal doppio profilo: da un lato coltiva, in maniera un po’ ritrosa, una sorta di vocazione intellettuale, che lo porterà lontano nel suo destino professionale e, soprattutto, che lo fa cantore del microcosmo cesatese; dall’altro si sente parte di quello stesso microcosmo, condividendone una certa spontaneità popolare e, in definitiva, l’ethos. Come stanno insieme queste due anime, senza creare contraddizione?

Essere parte di qualcosa, per cantarne da adulto e da intellettuale divenuto le relative caratteristiche, non mi pare comporti di necessità una contraddizione. È vero però che in Berto Beretta alias Muster convivono due anime: quella gaffosa, che insieme allo sprofondamento vitalistico nell’ethos dei compaesani gli rende irto di ostacoli il cammino verso la maturità; e dall’altra parte l’animus mathematicus, il talento per la formalizzazione simbolica, che lo accompagnerà positivamente nella professione docente.
Il mio desiderio era di tenere in luce entrambe le polarità; perché da un buon matematico non deriva per forza un agevole commercio con il mondo (anzi, a mia conoscenza, sovente è l’opposto); mentre da uno scavezzacollo imbranato e mezzo teppista come Muster ci si può aspettare di tutto, nel luogo e nel tempo descritto: anche una discreta riuscita a carattere individuale, con relativo e finale imborghesimento. La scommessa, insomma, era di far prendere le misure al mondo (con formule, assi cartesiani, teorie sulle origini dei soprannomi e delle figuracce) a uno che in defnitiva non capisce tutto. E infatti si interroga a fondo, anche da vecchio, su una figura un po’ ermetica come Mirella. La dico tutta: si interroga, tardi, da un oltre-tempo che non ha mai trovato realizzazione, sul suo eventuale amore (il “dono”, il “discorso”).

Nonostante Muster racconti una storia fatta di eccentricità, di avventure degne di un romanzo picaresco, i cui personaggi sono in qualche modo unici (a partire dai soprannomi), e non tipici, si ha l’impressione che il quadro tratteggiato pos-sa avere una valenza esemplare, di un certo modo in cui in Italia è stato vissuto il boom economico. Quanto c’è di unico e quanto c’è di tipico, nel romanzo?

Al centro del romanzo (e in fondo di tutta quanta la trilogia) ci sono i processi di modernizzazione a cui siamo andati incontro negli anni 60-70 del secolo scorso. Il focus del discorso tuttavia non è la metropoli con le sue lusinghe, ma più esattamente: il modo in cui il modernismo metropolitano viene assorbito e si riflette presso le classi piccolo-borghesi e popolari di area paesana. Decisivo è il paese, l’entità borghigiana, con le sue modificazioni rapide, ma anche con un codice identitario che si mantiene nel tempo. Di qui nasce l’unicità, e non la tipicità, dei percorsi romanzeschi prospettati. L’ibridazione che si snoda incessante tra culture popolari e mitologie moderniste era la vera questione oggetto di racconto; convinto come sono che l’unicità è ciò che davvero rende memorabile una storia o un personaggio. Poi, è chiaro, tanto più credibile e articolato è il mondo che si rappresenta, tanto più esso può aspirare a un criterio che lo trascenda: solo così l’Unico (l’individuale) suggerisce alcunché di universale.
Muster è un romanzo, non un’autobiografia: nei limiti di una problematicità moderno-contemporanea, è un romanzo di formazione, o di dis-formazione, o di tarda e paradossale formazione. Mirella, per intenderci, è frutto più o meno riuscito (non sta a me dirlo) di una plurima fusione di ragazze che ho conosciuto. Ma paradossalmente le gaffes più clamorose, i trafugamenti di ossa nei cimiteri abbandonati, lo stesso autoritratto stilizzato che sta in copertina sono reperti più che mai veridici: referenziali (e ometto qui l’uso della tanto sbandierata autofiction). A ben guardare, in realtà, l’elemento più sicuramente inventato e “unico” non è ciò che riguarda la trama, gli eventi, ma lo stile. La mia domanda seminale era: come mai scriverà, da semivecchio, uno strambo come Berto Beretta: esperto matematico, divenuto borghese (punto prospettico in Foro Bonaparte a Milano), ma anche radicato immedicabilmente in un paese di provincia a vocazione popolare e sottoproletaria (operaia, impiegatizia)? Con che parole e giri di frase tenterà di riordinare la propria adolescenza-giovinezza?
Su questo terreno ho lavorato molto, e con grande piacere (le metafore, gli slittamenti semantici, la sintassi sghemba e ritmata); senza eccedere in espressionismo, sul modello di Gadda o del primo Testori, ma abbastanza per mettere il lettore dinnanzi a qualcosa di originale. Queste almeno le intenzioni. 

Muster conclude la cosiddetta trilogia parallela, composta da Com’è grande la città (1996) e Carùga blues (2003). In che modo ha pensato – a più di vent’anni dal secondo romanzo – che servisse la storia di Berto per chiudere quel percorso narrativo? E qual è la ragione dell’aggettivo “parallela” usato per definire questo trittico?

Il tempo intercorso è davvero molto, ma si vede che in testa continuava a risuonarmi qualcosa: qualcosa che ancora non avevo detto o che non ero riuscito a dire in modo adeguato. Si potrebbe osservare che dalla prima alla terza tappa i contenuti si arricchiscono mano a mano che ci si allontana dallo schema autobiografico. E Muster, il più romanzesco, è anche l’esemplare che più propone in termini di verità narrativa.
Ho parlato di “trilogia parallela”, è vero, e avevo in mente un poco pomposamente le serie di Wharol, la montagna Sainte-Victoire dipinta da Cézanne. Cioè avevo in mente qualcosa che si ripete con piccole o grandi varianti espressive. Fissa è l’ambientazione: Cesate; così come fissi sono molti personaggi di contorno o talune mitologie adolescenziali: i cimiteri abbandonati, il furto dei rubinetti all’oratorio, la motocicletta, il viaggio in Jugoslavia. Diversi però appaiono i personaggi narranti: Bruno Pischedda in carne e anagrafe, Enzo Carugati (il Carùga), Berto Beretta (Muster). E in ciascuna tappa è inscritto un diverso destino, secondo la formula per cui la minima devianza dal tracciato approda a incalcolabili divaricazioni. Insomma una “ripetizione” etico-fantastica che vorrebbe dar luogo, come ho scritto, a una diversa serialità. E tutto questo, ovviamente, mantenendo a ciascun romanzo la sua compiutezza.

Infine, una domanda leggera, che rivolgiamo sempre ai finalisti del Premio Bergamo: quale tratto del suo libro crede possa farlo vincere?

Mi piacerebbe vincesse perché si tratta di un romanzo divertente. Io lavoro privilegiando un’ispirazione latamente comica, auto-ironica: nell’orchestrazione delle scene, nei dialogati brevi e arguti. Certo si tratta di un comico molto spurio e declinato secondo una pluralità di registri, che dal semiserio, al serio, al sapienziale, conducono al tragico e poi risalgono verso il ridanciano o il grottesco. Nel mezzo di queste transizioni espressive stanno tante cose, tanti fatti, che il lettore spero saprà apprezzare nel loro fondamentale e analitico “realismo” (vorrei chiudere con un appunto, relativo al sottotitolo: la giovinezza di cui parlo è “fantastica” siccome è ricca, piena, soddisfacente nonostante i molti imbarazzi. Ma come sta scritto nel romanzo è “fantastica” anche perché re/inventata: “Poi la vita sia pure a fatica se ne andò dove doveva andare, e tutto cominciò a precipitare poco per volta nella fantasia […] Poi, ripeto, la vita se ne andò doveva andare e tutto iniziò a precipitare nella fantasia”).