Quando ho letto per la prima volta il volume di poesia di Bernardo Pacini ho avuto la sensazione che il disfacimento si esponesse davanti ai miei occhi come un esperimento controllato. Il libro è diviso in cinque parti che io percepisco come cinque modi di sperimentare la dissoluzione. Forse non è più di moda parlare di un io quando si parla di poesia, ma in questo caso ho sentito chiaramente una forte voce che attraversa il volume (la voce di un osservatore a volte anche intrusivo, o che addirittura scuote le cose attorno per provocarne il movimento proprio per poterlo studiare meglio). È una voce che assomiglia al reale come descritto da Baudrillard (Le strategie fatali, SE, 2007): «il reale è quel qualcosa la cui immagine continua a giungerci, sebbene esso non esista (analogia con gli oggetti mentali e l’etere mentale)». Perciò, questa voce è una fonte infinita di produzione e disfacimento, è un modo di dire sono ancora qui. Posso sfasciarmi in modi diversi (tramite la mia sensibilità, tramite i rapporti che ho con il mondo o tramite tecnologia, o semplicemente tramite un disinteresse verso me stesso), ma sono qui, non c’è un limite alla dissoluzione. Si sente un gusto per il gioco, a volte per giocare con il gioco, quando non si seguono le regole, e a volte un gusto teatrale/registico che lascia che le persone e gli oggetti recitino le loro piccole scene:
non era che stridore dell’attrito di A con B-
lo svago che cercavo non veniva dall’accordo
di elementi rettamente collegati:
il prodigio precedeva l’intenzione
il mezzo provocava la forma e il contenuto
della gioia, se puoi chiamare gioia un gesto idiota
Esiste una sorta di distacco demiurgico (un demiurgo greco che non può scappare al determinismo del mondo), e in questo caso creare significa osservare un intreccio di rapporti/relazioni in cui anche la voce di quale parlavo è intrappolata e non riesce a sfuggire alle leggi (naturali) del mondo, dello spettacolo, dello schermo:
Decifrare il primo passo sull’asfalto
come primo mandato del mattino.
Sono una costola dell’accaduto
ciò che sfioro minaccia di friare
in un domino di collassi frontali:
muri di smartphone, passi insicuri, stanchezze
raschiate dalle facce di chi incontro. Mente,
soda mentalità che ad ogni circolo di fiato
sedimenta sull’intento, i pulsanti cromati
la targa dello stabile, la pianta ornamentale
Anche se non si può sfuggire, si può espellere tutto quello che potrebbe essere o diventare un io. Se la coscienza è un meccanismo che fa sì che tutto ciò che vivo sia mio, la poesia è come una coscienza a funzione inversa: non rendere tutto io/mio, ma dopo che tutto e stato mio farlo tornare nel mondo, come oggetto. Nel caso di Bernardo Pacini penso che funzioni benissimo una definizione di Jonathan Culler, basata su questa inversione: «L’ordine formale della poesia, la scelta del ritmo, rendono il poema un oggetto impersonale, il cui io e tu sono costruzioni poetiche» (Theory of the Lyric, Harvard University Press, 2015). La voce che si mescola al mondo si rifiuta di diventare un io ed è rigettata di nuovo fuori. L’uso della parola io ha più a che fare con i limiti del linguaggio che con una coagulazione del senso:
Non c’è rimedio per l’estraneità:
è una truffa assurda, celata nel sì
che mormoro distratto –
il sì che esorbita dall’evidenza
che le cose sono due, io solo una:
il colpo di tosse nervosa di un sasso
lasciato per sempre libero
al centro di una sala d’attesa
Con una sensibilità anti-romantica, che non trova nessuna risonanza fra l’individuo e il mondo, il poeta diventa un cacciatore di disarmonia, scopre quello che Frederic Jameson (The Antinomies of Realism, Verso Books, 2013) chiamava affect, il «divorzio inconciliabile tra esperienza vissuta e l’intelligibile». Le sensazioni diventano autonome perché non esiste più, forse da Baudelaire in poi, un mondo codificato delle emozioni (dove ogni gesto rimanda a un certo significato morale), e allora il poeta diventa per forza un esploratore sommerso in una disarmonia musicale, o che diventa musicale una volta messa in parola, la disarmonia come percezione della tensione, dello «stridio della schiena di un dio»:
L’unica forma che sia riconoscibile
per noi seduti a questo tavolo
è un cigno che pedala nel buio a pelo d’acqua
guardando un carrello della spesa
riverso sul fondale.
Il suo modo di non chiedere spiegazioni
è quello di chi guarda un’altra volta
a un fatto doloroso del passato:
conosce il diradarsi della pelle intorno all’osso
ne culla l’assenza di bene | nel blocco anatide degli occhi
Questa esplorazione non può evitare l’assurdo o, talvolta, una trascrizione di microstorie che, per il semplice ritaglio, diventano una sorta di organi autonomi, ‘macchine desideranti’ dentro il linguaggio («Ragazzone occhi dolci e gatto in braccio | frigge drone a bordo vasca | e se lo mangia» o «C’è un signore nel quartiere che saluta tutti i passanti, indistintamente. Se può, anche quelli che camminano sul marciapiede opposto, o che attraversano le strisce nel maldestro tentativo di evitarlo. Lo fa con tutti, senza pregiudizi, anche se non è contraccambiato o persino se sospetta di disturbare. Buongiorno, arrivederci, buona giornata, buonasera: anatemi pronunciati con dedizione e una gentilezza tali da obnubilare ogni sospetto di autismo. […] Quando per qualche ragione (si spera non quelle sbagliate) la cronaca locale lo menzionerà, uno degli intervistati di sicuro dirà salutava sempre. Non sarà un tic linguistico né il solito modo di dire, ma l’evidenza di un dato di fatto»).
È ovvio che le scelte stilistiche di Bernardo Pacini non sono messe al servizio di un’evasione ma, al contrario, sono forme di immersione lungo la via sempre più complicata, sempre più confusa che molti poeti percorrono: «indicate the path between reality and their souls» (Whitman). La letteratura è affascinata del reale, vuole inglobare il più possibile di esso, e talvolta questa tendenza verso un ritorno alla realtà genera risultati ‘descrittivi’ penosi. Nella poesia di Bernardo Pacini, tuttavia, il lettore si trova ad affrontare la difficoltà di questo tipo di inglobamento. Ricordando una delle sue letture di Rimbaud, Cărtărescu faceva questa osservazione in un saggio del 1986 (Cuvinte împotriva mașinii de scris, Caiete critice, n. 1-2): «mentre il poeta francese diceva che attraverso lo sregolamento dei sensi, riusciva sinceramente a vedere, al posto della fabbrica (officina), delle torri di minareto; oggi i poeti cercano di vedere la fabbrica e non riescono più a vedere altro che torri di minareto». Prima di vedere i minareti o le fabbriche, vediamo cento fotografie di minareti/fabbriche, mille selfie con minareti/fabbriche, innumerevoli meme. Se il poeta vuole recuperare una sorta di purezza della percezione (credo che una delle sfide della poesia di Bernardo Pacini sia proprio questa), allora deve navigare attraverso questa escrescenza metastatica di copie senza originale, comprese copie virtuali di sé. Quando ho letto i capitoli Phishing e Ghosting ho avuto la sensazione di leggere delle pagine di un diario, non quel diario con pretese autofinzionali, ma semplicemente per registrare le cose di cui sono composte le giornate; in questo diario Bernardo Pacini annota l’interazione con la macchina/rete e i fantasmi che la popolano, il canto delle sirene degli ologrammi. Come se la caverebbe Don Chisciotte con questi mulini a vento digitali? Forse come fa Bernardo Pacini: non rispondendo ma trasformandoli tramite un ritmo in qualcosa che non sono. Dietro la demistificazione dei mulini a vento o delle Dulcinee si trovavano dei valori idealizzati, ma quando smascheriamo un messaggio phishing, cosa troviamo? Nemmeno una realtà.
Il mio nome è Florent Florent.
Sono molto brava a darti lezioni di lettura
sulla tua vita personale o sentimentale
la tua vita sentimentale
i tuoi problemi familiari o sentimentali
la felicità e il ritorno del tuo ex marito
o della tua ex moglie
anche nei momenti più disperati
Mentre un io scompare, la rete cerca di catturarlo di nuovo attraverso messaggi personalizzati, in cui, come ci ha abituati la stampa, compare la storia di vita, la biografia personale. È ironico che queste storie diventino un’esca, che l’emozione sia un prodotto dei bot, i quali sembrano rivolgersi a noi in modo autentico. Un meccanismo di questo tipo si può trovare già nell’Isola di Morel, dove un personaggio reale cerca di inserirsi nel gioco degli ologrammi. Ma qui l’invito degli ologrammi rimane senza risposta. Essi vengono solo ricopiati in una sorta di diario impersonale, che non è più attraversato da alcun desiderio. È la registrazione di un mondo che ci lancia segnali attraverso un linguaggio prefabbricato, a cui è, di fatto, impossibile rispondere. La poesia forse funziona in questo caso come un esercizio per inventare/riscoprire un’alterità che, nel mondo dell’informazione, può essere rappresentata solo dalla nostra non-conoscenza, da tutto quello che non possiamo vivere in modo autentico, non importa quanto siamo informati. Allora il verso viene nuovamente investito del potere di uno scambio simbolico (ma non simbolista) tra noi e una alterità appena intravista. Sempre nelle parole di Baudrillard (Lo scambio simbolico e la morte, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 1979): «L’atto simbolico non è mai in questo ritorno, in questa ritotalizzazione dopo l’alienazione, in questa resurrezione di un’identità; è sempre, al contrario, in questa volatilizzazione del nome, del significante, in questa sterminazione del termine, in questa dispersione senza ritorno». Il disfacimento è anche questa sterminazione del valore del linguaggio sempre compreso, in cui si scambiano sempre significati fissi. E anche collegato al nostro modo di vivere in un presente eterno, in un tempo infinitesimale dove il poeta percepisce i cambiamenti più microscopici, cosi come un fotografo percepisce un minimo aumento o abbassamento della luce, un tempo nel quale diventiamo un insieme di immagini cancellate ma anche conservate, criogenizzate in una rete (neuronale o online):
Il mio passato è la luce bianca che illumina
la sala espositiva dei pianoforti
all’ora di chiusura. Una donna coreana
sta suonando, non sa di essere veduta.
La ritraggo malamente con lo smartphone
da dietro la vetrina. Se entrassi
potrei ascoltare quel pezzo di Grieg
che non ho mai finito di studiare
quando al quarto ho abbandonato
velluto e madreperla. Ora che lei se ne è andata
la sala è silenziosa, i tasti e il carapace
dei mezza coda neri luccicano quieti
mentre il vuoto si esibisce.
Il mio passato ora risuona tra la corda
e il feltro del martelletto.
Bernardo Pacini, Ipotesi sul mio disfacimento, Mar dei Sargassi, Portici (NA), 2024, 90 pp., € 15,00.