In attesa della cerimonia di premiazione della XLI edizione del Premio Narrativa Bergamo, che si terrà sabato 3 maggio alle ore 18 al Teatro alle Grazie di Viale Papa Giovanni XXIII, proponiamo delle brevi interviste con i cinque autori finalisti. Dopo Dario Voltolini e Bruno Pischedda, tocca oggi ad Ade Zeno, in cinquina con I Santi Mostri (Bollati Boringhieri 2024).

I Santi Mostri, possiamo dire, è un libro sulla diversità fisica alla prova della società, ed è ambientato in Germania durante il regime hitleriano, che forse come nessun altro – almeno nella storia contemporanea – ha osteggiato le diversità. In fase di ideazione del romanzo, l’ambientazione della storia è stata chiara fin da subito o è stata il frutto di una scelta successiva?
L’idea di ambientare la storia in Germania dagli albori del nazismo alla fine della Seconda guerra mondiale si è imposta fin da subito: un contesto particolarmente fertile per i temi che intendevo affrontare. Ma la diversità di cui parla il romanzo non riguarda solo l’aspetto fisico dei protagonisti, è qualcosa di più profondo, di più radicale; riguarda la tragica obliquità di chi vive ai margini, costretto a sentirsi fuori posto in un mondo che impone i canoni della presunta normalità. Tutte le forme di potere – non solo quello nazista – si sono sempre opposte, e continuano a opporsi, a ciò che deraglia dal senso comune, perché la diversità crea disordine, è più difficile da controllare. Del resto la parola ‘mostro’ deriva dal latino monēre, cioè ammonire, mettere in guardia dalle insidie della straordinarietà.
Quanto è stato necessario inventare, per mettere insieme questa storia di bizzarria e crudeltà? Quanto invece hai trovato nelle fonti o documentandoti? Qual è l’equilibrio tra le due componenti?
Diciamo che mi sono concesso il lusso di giocare con la Storia, scegliendo come punti di ancoraggio un contesto sociopolitico molto preciso e alcuni personaggi realmente esistiti, ma con lo spirito di chi osserva la realtà con un certo sospetto. La letteratura non è il mondo, può solo fingere di esserlo, trasfigurandolo, nel tentativo di cambiarlo attraverso gli strumenti dell’immaginario. Mi sono documentato, questo sì, per restituire un quadro plausibile dell’epoca, e in alcuni casi – penso soprattutto alla figura di Karl Brandt, il medico nazista responsabile del Programma Action T4 – sono andato molto a fondo. Il fulcro del romanzo, però, sta nell’invenzione.
Intorno a metà della narrazione il personaggio centrale – e quindi anche il punto di vista – cambia in maniera repentina. Come mai? Quale effetto intendevi ottenere? Non hai pensato al rischio di spiazzare il lettore, sottraendo un personaggio (Gebke Bauer) al quale si stava affezionando?
L’idea che qualche lettore possa essersi affezionato a Gebke mi rende felice: io gli ho voluto bene fin da subito. Ma la figura di Andris – Polifemo – porta con sé una complessità ulteriore, di cui sentivo il bisogno per permettere alla storia di andare più a fondo nel tema del mostro. Se il tempo e le energie me lo consentiranno proverò a farlo tornare nel prossimo libro: ci sto lavorando.
Infine, una domanda leggera, che rivolgiamo sempre ai finalisti del Premio Bergamo: quale tratto del tuo libro pensi possa farlo vincere?
Non ne ho idea, e in tutta onestà mi interessa poco. Grazie al premio il romanzo ha incontrato nuovi lettori, sembra già un ottimo risultato per un autore marginale come me. Non ho ancora avuto modo di leggere gli altri libri selezionati – lacuna che conto di colmare quanto prima – a parte quello di Dario Voltolini, scrittore e persona che stimo in modo sconfinato: non vedo l’ora di riabbracciarlo in occasione della finale.
