È una strana ma affascinante creatura il romanzo della belga Jacqueline Harpman, Io che non ho conosciuto gli uomini, pubblicato per la prima volta in Francia nel 1995 e portato in Italia da Blackie Edizioni nel 2024. Si aggancia a una lunga tradizione di narrativa fantascientifica che fa del femminile il centro della rappresentazione distopica, e proprio per questo è fisiologico il rimando, pur nella sua specificità, ai lavori di autrici come Ursula Le Guin, Margaret Atwood o Katharine Burdekin. Quest’ultima vera capostipite del genere per come si è delineato a partire dal secondo Dopoguerra: con lei, scrive Domenico Gallo nella Nota all’edizione Sellerio di La notte della svastica – piccolo capolavoro del 1937 su cui George Orwell deve aver passato qualche notte – «la fantascienza inizia a diventare il linguaggio chiave per esplorare il tema della condizione femminile». Harpman si muove nello stesso alveo, come lambendone i margini, in modo sorprendentemente specifico, con un incedere a bassa intensità drammaturgica ma di grande stratificazione filosofica e psicologica.
La vicenda racconta di un gruppo di quaranta donne rinchiuso in un bunker sotterraneo dopo una catastrofe non meglio specificata, e della quale nessuna ricorda nulla. Vinte da un’amnesia irrimediabile circa le condizioni che le hanno portate in quella situazione, le prigioniere coltivano solo ricordi legati alla vita precedente, al «prima della catastrofe», vivono senza la nozione del tempo, sono controllate a vista da guardie, uomini muti e violenti, che camminano ininterrottamente attorno alla gabbia in cui sono imprigionate e impediscono ogni contatto fisico e ogni eventuale tentativo di suicidio a colpi di frusta. Cosa ci fanno lì sotto? Chi e perché le tiene in vita in quelle condizioni? Cosa è successo al mondo là fuori? Sono domande che abitano le inquietudini di tutte, finché la rassegnazione non spegne qualsiasi tentativo di darsi delle risposte. Una di loro però, la più giovane del gruppo, al buio non si rassegna. È l’unica che nel bunker è cresciuta, probabilmente per via di un errore. Non ha legami con una vita precedente né la consapevolezza di tutte le cose che riguardano gli umani e il loro modo di stare al mondo. Ha quindi il potenziale sovversivo per rompere l’inerzia che ha vinto il gruppo di donne, affiancata da una compagna da cui impara molto di ciò che non sa. È lei a volersi dare le prime risposte, a compiere una primissima rinascita che muove dal ritorno all’elaborazione del tempo, dell’alternarsi del giorno della notte. Attraverso l’unico strumento disponibile, il corpo, che subito si predispone come elemento cardine di tutto il romanzo.
«Come potevo misurare il passare del tempo? Non disponevo di altri segnali se non quelli che mi forniva il mio corpo». Il battito cardiaco come metronomo le permette di cominciare a darsi delle risposte sui turni delle guardie, a fare congetture. Ed è come aver rotto un incantesimo. Un giorno qualsiasi, uno come un altro durante la distribuzione del cibo, succede qualcosa. Il frastuono di un allarme terremota il bunker. Le guardie si dileguano, come in preda al panico, e lasciano la gabbia aperta. Le donne possono finalmente risalire la scala ed emergere in superficie, come partorite dalla terra, rimesse al mondo. È una rinascita collettiva che ancora una volta è un’esperienza innanzitutto sensuale, corporea: la carezza della pioggia sulla pelle, il primo bagno in un fiume, la messa in scena di una “logistica della defecazione”, che per la prima volta diventa una questione privata. Tuttavia, trovano anche il risvolto ironico della libertà: deserto, desolazione, nessuna apparente traccia umana, solo una «immensità immobile da cui non veniva alcun segnale». Dallo stretto buio del bunker all’aperta e luminosa vastità del mondo in superficie poco sembra cambiare: «In realtà, avevamo semplicemente cambiato prigione».
A questo punto non possono che intraprendere un lunghissimo pellegrinaggio alla ricerca di civiltà, di umanità, di risposte. Tutto ciò che trovano sul cammino sono però guardiole che nascondono bunker, ogni volta abitati da scorte di cibo e da cadaveri di donne abbandonate rinchiuse e lasciate morire di stenti. Sorprendentemente trovano anche un bunker di soli uomini, tutti morti a loro volta. E allora i dilemmi si infittiscono, e il loro movimento diventa una quête alla ricerca di una verità in un mondo in cui sembra non esserci più l’alternanza delle stagioni ma un clima sempre uguale, piogge rare, scarsa vegetazione, solo piccole variazioni di temperatura ma una rete di energia elettrica che continua a funzionare. È in questo senso che la fantascienza sociologica di Harpman si vena di ecocritica.
Ecco allora che se inizialmente la vicenda sembra sintonizzarsi sulle frequenze delle Ancelle di Margaret Atwood, e ancor più dei “quartieri delle donne” raccontati da Katharine Burdekin – spazi dove le donne erano chiuse in gabbia con l’unico scopo di partorire figli maschi, e che tematizzavano il rapporto stretto tra autoritarismo e patriarcato, violenza e maschilismo, fascismo e misoginia –, Harpman prosegue invece lasciando sullo sfondo il tema della repressione biopolitica per architettare un romanzo di formazione che scava nella dimensione psicologica della narratrice autodiegetica – lei che non ha mai conosciuto gli uomini. In questo senso riarticola l’identità di genere femminile non inserendola in una dinamica conflittuale con un sistema sociale repressivo che la sfrutta come “mezzo di produzione”, ma ponendola di fronte a una catastrofe climatica e in cui non sembrano essere rimasti viventi e la lotta è tutta con i limiti della propria conoscenza, con la disperata necessità di sapere, di conoscere, di scoprire sé stessi in relazione al mondo. Qualcuno ha scritto che sembra di essere di fronte a The Road di McCarthy scritto da Ursula Le Guin, e tutto sommato il paragone dà l’idea di come il romanzo faccia in qualche modo da ponte tra queste due grandi sponde.
L’andamento slow-core con cui procede la narrazione in prima persona permette non tanto di farsi avvolgere dalla trama a maglie larghe, ma di assorbire un sentimento, di percepirne il suono quasi, tramite la sensibilità di una donna che è una pagina bianca sul mondo, che muove da una prospettiva che è davvero solo sua. Ed è questo io protagonista l’elemento chiave del romanzo, anche dal punto di vista discorsivo e tematico, non solo nell’economia della vicenda che riguarda il gruppo e la sorte cui andrà incontro. Attraverso di lei Harpman rinnova brillantemente la capacità del fantastico di mettere in discussione gli stereotipi di genere, di produrre nuove rappresentazioni capaci di sviluppare immaginari alternativi. Fin dall’inizio la voce che ci accompagna ci dice che non ha mai avuto il ciclo mestruale, e che mai le verrà. Coltiva un’alterità che è innanzitutto biologica:
I miei organi genitali erano immersi nel silenzio. Per curiosità mi capitò, quando andavo a lavarmi al fiume, di cercare la mia vagina: riuscivo a farci entrare a malapena la punta del dito, a causa dell’imene che la sigillava come una porta chiude un corridoio. La immaginavo lunga e stretta, delimitata a ciascuna estremità come i corridoi dei sotterranei.
È un’estraneità al proprio corpo che in qualche modo corrisponde a un’assenza di memoria che la riconnetta alla dimensione codificata e identitaria del ruolo di genere. La sua è invece un’identità ibrida, della non appartenenza, fatta di differenza e sottrazione: non appartiene a nulla se non a sé stessa, è libera da ogni condizionamento culturale, sessuale, perfino emotivo – «Avevo visto le donne tremare, piangere, urlare, io ero estranea al loro dolore, testimone silenziosa di atti che mi sembravano incomprensibili». Ed è per questo che riesce a essere un punto di riferimento per le ultime sopravvissute, come a interpretare quel “potenziale della differenza” di cui parla Gilles Deleuze – e quel cyborg feminism harawayano che molto (tutto?) deve al filosofo francese – e che qui sembra riattualizzarsi nella rappresentazione di un femmineo post-umano, impossibilitato a essere materno. E che a suo modo scioglie il rigore del binarismo, spingendo verso un’umanità capace di elevarsi ad altro di fronte alla fine della specie.
Fin dall’apertura del romanzo la narratrice ci dice che ciò che abbiamo tra le mani è il libro delle sue memorie. Ce lo consegna nella più completa solitudine e malinconia. Ripensa alla donna che le ha insegnato tanto di ciò che sa. E d’un tratto singhiozza e piange, per la prima volta in vita sua. Come il pianto di un neonato gettato nel mondo, il suo è un pianto che inaugura una rinascita, che evidentemente assume anche un carattere metanarrativo. Altro espediente, questo, di cui Harpman si serve abilmente per dare tridimensionalità alle riflessioni sul tempo, sulla solitudine, sull’identità che può farsi solo nella relazione e attraverso la scrittura. Io che non ho conosciuto gli uomini è un congegno ben elaborato con cui l’autrice ha il merito di dimostrare come il genere della distopia femminista sia un campo di elaborazione sempre fertile, eloquente e predisposto, forse per costituzione, a spingersi facilmente e con profitto oltre i limiti dei suoi canoni.
Jacqueline Harpman, Io che non ho mai conosciuto gli uomini, trad. S. Clamor, Blackie, Milano 2024, 176 pp. 18,90€