In attesa della cerimonia di premiazione della XLI edizione del Premio Narrativa Bergamo, che si terrà sabato 3 maggio alle ore 18 al Teatro alle Grazie di Viale Papa Giovanni XXIII, proponiamo delle brevi interviste con i cinque autori finalisti. Dopo Dario Voltolini, Bruno Pischedda e Ade Zeno, tocca oggi ad Antonella Moscati, in cinquina con Patologie (Quodlibet 2024).

In Patologie, come in altri suoi libri precedenti (penso per esempio a Deliri, nottetempo 2009, o Una quasi eternità, recentemente ripubblicato da Quodlibet), l’esperienza autobiografica è il punto di partenza per una riflessione che – forte della “leggerezza” che il racconto personale presuppone e consente – conduce il lettore all’esplorazione di questioni e temi che sono di interesse collettivo e, più spesso, anche di rilievo concettuale o filosofico. Qui succede soprattutto nel racconto Agt. Quanto interviene nella sua scrittura la sua esperienza di filosofa e di traduttrice di filosofi? E come dialoga con l’impulso alla scrittura creativa?
Penso che, nonostante tutto, nonostante, cioè, il nostro essere duplici, molteplici, schizzati, scissi o dissociati, siamo pur sempre anche un uno e un unico. Se quindi scendiamo un po’ in profondità, troviamo tutto o quasi tutto: tutto o quasi tutto, cioè, si conserva e può riapparire. Il primo degli episodi “psicotici” che cerco di raccontare in Deliri aveva un carattere decisamente filosofico: perché lì in effetti mi interrogavo su quella che in gioventù avrei definito la mia “destinazione” filosofica, chiamando a raccolta tutte le mie conoscenze in questo campo, e sulla compatibilità di questa eventuale “destinazione” con il mio essere donna, compatibilità che allora mi pareva estremamente difficile, per non dire pericolosa o impossibile. Una quasi eternità racconta quel periodo doloroso per me, come per molte donne, che segna la soglia dei cinquant’anni e la fine della fertilità, ma risente sicuramente anche delle letture accanite che ho fatto in quegli anni degli scritti di Hannah Arendt, soprattutto di quel libro bellissimo che è Vita activa.
In effetti capisco tutta la portata di un problema filosofico solo quando riesco a collegarlo a qualcosa che conosco molto bene, alla mia esperienza vissuta o a quella di persone che mi sono vicine.
Quanto all’importanza del mio lavoro di traduttrice e di traduttrice di filosofi, soprattutto di Jean–Luc Nancy, credo che questo lavoro mi abbia regalato una “scrittura”, se nei miei testi una qualche scrittura c’è. Perché tradurre significa innanzitutto imparare a sentire non solo una lingua straniera, ma anche la lingua determinata(la parole per usare un termine della linguistica)e lo stile di chi traduciamo. E questo ci aiuta o addirittura ci costringe a sentire la nostra lingua, la nostra parole, il nostro stile.
Patologie rientra all’interno di quella categoria di testi che la teoria ha recentemente battezzato “patografie”, le cosiddette storie di malattia che permettono di volta in volta di portare alla luce le motivazioni, le strategie ricorrenti e il potenziale terapeutico di queste narrazioni. Se nel caso di Agt il racconto serve, grazie anche ad alcuni richiami scoperti, a spiegare e concettualizzare la malattia vissuta in prima persona, nel caso del primo, eponimo racconto (Patologie) al centro c’è la paura della malattia. Qual è stata la motivazione che l’ha mossa alla scrittura di questo primo pannello del dittico? Un desiderio di esorcizzare? Oppure la volontà di mettere un carattere famigliare alla prova con una scrittura che provasse a scardinarlo o straniarlo, anche attraverso il filtro dell’ironia?
Tutte e due le cose, direi: perché soprattutto la prima parte di quello che lei chiama il racconto eponimo, è stata scritta quando quel contenuto, la paura delle malattie della e nella mia infanzia, era stato messo a distanza con il passare degli anni (miei), ma anche o forse soprattutto con il tramonto di quel mondo medico scientifico e pseudoscientifico, sempre un po’ fantasioso, che aveva caratterizzato gli anni di studio di mio padre, che si era laureato in medicina negli anni’30. Il tramonto di quel mondo ha provocato o meglio ha coinciso – perché qui non si tratta di un rapporto di causa/effetto – con l’emergere di un modo molto più tecnico, pragmatico e scientifico di considerare le malattie, soprattutto il cancro e le malattie cardiovascolari che, anche per la necessità della prevenzione che le caratterizza, hanno avuto un impatto e una presa molto più forte sulla vita quotidiana di ciascuno di noi. Il testo, d’altronde, aveva inizialmente una netta frattura al suo interno, una frattura che ho cercato di nascondere, ma che ogni tanto s’intravede ancora. Il punto di frattura era visibile proprio nel passaggio dalle paure dell’infanzia a quelle dell’adolescenza, quando appunto si comincia a parlare di cancro e tumore e queste due parole conservavano tutta la loro forza fobica. Quel punto di passaggio indicava inoltre l’abbandono della figura e del mondo di mio padre, e l’ingresso, con l’adolescenza, in un mondo e in rapporti che assomigliavano molto di più a quelli di mia madre che, tra l’altro, era ben più giovane di mio padre. La prima metà (o forse i primi due terzi) del racconto Patologie aveva da sempre un tratto ironico per non dire dichiaratamente comico, perché si riferiva a qualcosa di veramente passato, nella seconda parte ho dovuto faticare parecchio per tenere a bada contenuti che ancora mi spaventavano e che mi spaventano tuttora.
Patologie (inteso ancora come testo singolo) sembra anche un racconto sulla famiglia, ritratta a partire da un tratto che accomuna tutti o quasi i suoi membri. Questo elemento unificatore, però, finisce per separare la famiglia della narratrice dal mondo esterno; sono pochissime, infatti, nel corso del racconto le incursioni di vicini, amiche o altri estranei al nucleo. È stata una scelta deliberata? O il racconto del timore delle malattie ha spontaneamente definito un perimetro, un cordone sanitario intorno a tutti coloro che di queste paure sono stati vittime e alfieri?
Anche qui mi verrebbe di rispondere affermativamente a tutte e due le domande, ma invertendole. Penso infatti che i libri si scrivano sempre un po’ da soli e che, se cerchi di dar loro una certa curvatura, alcune parti l’accettano, altre resistono. Il discorso e la paura della e sulla malattia è stato fin dall’inizio un discorso – alquanto soffocante – di famiglia e sulla famiglia. Ogni tanto ho forzato deliberatamente la mano, ogni volta che “sentivo” una dissonanza di tono. L’editrice che ha pubblicato in Francia il racconto mi aveva chiesto di provare a uscire dalla famiglia: è stato proprio in questo tentativo fallito che mi sono accorta che non avrebbe avuto alcun senso farlo, perché avrebbe solo peggiorato il testo.
Infine, una domanda leggera, che rivolgiamo sempre ai finalisti del Premio Bergamo: quale tratto del tuo libro pensi possa farlo vincere?
Risposta ancor più leggera: Boh! non ne ho la più pallida idea. E non lo dico (solo) per schermirmi. D’altronde e per fortuna non tocca a me giudicarlo.
