di Davide Valtolina

Benigni, Tribunale 180Il senso di una giustizia incombente e al tempo stesso inesprimibile grava sulla seconda raccolta in versi di Corrado Benigni, Tribunale della mente (Interlinea, 2012). Benigni, che nella vita svolge la professione di avvocato, attinge dalla propria esperienza un ristretto bacino semantico e un’originale struttura metaforica per costruire un libro compatto e opaco sul male che pervade l’esistenza umana, sempre colpevole e prossima al giudizio («Siamo comunque l’attesa di un giudizio | che torni a riscrivere tutto | con poche parole esatte», p. 45).

La raccolta ha il suo centro focale nella lingua cruda e burocratica che intesse i componimenti delle quattro sezioni (la seconda è un intermezzo di prose liriche e la quarta è composta dalla silloge Giustizia, pubblicata in Poesia contemporanea. Decimo quaderno italiano, Marcos y Marcos, 2010, e ora ripresa con qualche piccola variazione che mira ad asciugare ancora di più il dettato e a scandire i versi con maggior rigore). Benigni piega il linguaggio forense alle proprie esigenze liriche, creando una maglia serrata di parole«crimine», «colpa», «giustizia», «giudizio», «tribunale» – che si ripetono di continuo con rimodulazioni minime e danno al libro una tensione centripeta persistente e quasi ossessiva, benché mai risolta in maniera definitiva. Questa scelta stilistica si rivela particolarmente proficua anche quando le tonalità si presentano lievemente variate, perché la lingua sostiene con efficacia le asserzioni ferme e le formule lapidarie dal taglio profetico disseminate nei testi, specie in chiusura («Nell’attesa sta il richiamo di ogni verità», p. 71). Altre volte, nei componimenti si rivengono calchi ed echi di espressioni religiose o propriamente liturgiche che riflettono l’evocazione di una giustizia al varco («Rimetti al cielo i tuoi debiti | come l’invisibile li rimette a te», p. 9, «Attendi sulla tua soglia il verdetto | le braccia sul petto a forma di croce», p. 49, «Chi rimette i debiti ha una mano bucata…», p. 63).

Il male – inteso nella sua accezione lata che non ne cancella, ma anzi ne rafforza, l’immanenza – è un dato di fatto, fa parte delle nostre vite anche quando non si traduce in atto («Quale crimine consumiamo senza commetterlo?», p. 7). Un componimento in particolare sembra racchiudere l’intera matrice tematica e stilistica del libro, grazie a una tecnica contrappuntistica che lega i versi e insieme li spezza:

Trova tu la formula assolutoria
ma non ci sarà salvezza,
la giustizia non ha nome,
questo nome è la tua colpa.

(p. 50)

L’allocuzione trova spazio in diversi testi e come qui può assumere, a seconda della letture, una valenza ottativa, esortativa, imperativa. Ad ogni modo, «non ci sarà salvezza» se «nessuno è innocente» (p. 26) per una giustizia che, anche se non si riesce a dire, proietta sulla nostra vita un’ombra: gravosa, forse, o salvifica.

Tutta la silloge è percorsa infatti da una tensione mai definita verso questa giustizia che si darebbe come ultima, ma che richiama altri interrogativi dolorosamente aperti: «Quale giustizia deciderà per sempre? | Cosa formerà giudicato?» (p. 14). Questa irresolutezza è una risorsa particolarmente feconda, riesce a dilatare l’impalcatura concettuale del libro diramando significazioni plurime che si riassumono nel titolo della raccolta, ripreso con una leggera variazione da un verso in cui gli esseri umani sono definiti «monadi nel tribunale di una mente» (p. 37). Proprio quest’ultimo passo chiude una poesia della terza sezione, costruita da cinque componimenti dedicati rispettivamente alle figure coinvolte in un processo: La difesa, Il testimone, L’imputato, Il giudice, Il pubblico ministero. Qui vengono vivisezionate le prospettive che nel resto del libro si fondono; il rigore organizzativo non toglie però nulla alla densità delle parole: la mente di ognuno è crivellata dal dubbio e inesorabilmente invasa da un senso d’attesa.

Il rovello intellettuale però non gira a vuoto, perché la dimensione speculativa si ancora sempre alla concretezza dell’esistenza, nel suo farsi tragico. Ciò avviene in maniera esplicita nella poesia che prende spunto da un increscioso fatto di cronaca nera degli ultimi anni, rivelato dall’epigrafe «… Uccise con lucida razionalità», che riporta uno stralcio della sentenza della Cassazione per il caso Franzoni. E se forse non è possibile «…spiegare la colpa delle mani | se il pensiero è senza dolo | e l’azione non ha volontà…», la voce nella strofa conclusiva chiede:

Giudice, quale bocca,
quale legge ora detta la pena –
calco di quale verità?

(p. 60)

La questione della colpa, ineludibile e tuttavia irrisolta, si complica al punto da rendere manifesta l’inadeguatezza delle leggi che governano le vite umane, «calco» di un ordine che non si conosce e ci lascia sospesi «fra questa giustizia che ci consuma | e una che attende» (p. 73). La poetica inquisitoria di Tribunale della mente disegna un universo costretto, raccolto intorno a pochi interrogativi che, del resto, ricorrono con una certa frequenza in maniera esplicita. Si fa spazio un’idea – forse una richiesta – di giustizia che trascende qualsiasi definizione ideologica e pone davanti alla domanda decisiva che apre una delle poesie più riuscite:

È davvero giusta la giustizia
che nessuna legge sa chiamare?
– Luce nella domanda –

Conta i passi obbligati alla salvezza, contali
qui dove tutto è coincidenza con qualcosa
e il testimone ha una lingua bruciata,
non ritirare per primo la mano, non patteggiare la tua pena –

Nell’attesa sta il richiamo di ogni verità.

(p. 71)

C. Benigni, Tribunale della mente, Novara, Interlinea, 2012, pp. 81, € 12.