Un mondo vecchio che sta insieme solo grazie a quelli che hanno ancora il coraggio d’innamorarsi. Lorenzo Jovanotti, Fango

 

Stalin soffre di Disturbo Esplosivo Intermittente e ha paura della sua rabbia, sta per compiere diciotto anni e vive in una periferia indistinta di nebbia, cieli interrotti e ombre proiettate sui muri. Il suo unico amico è Jean come Jean Gabin, un custode abbandonato da moglie e figlio, con una casa di chiaroscuri fra «l’inutile cliché dei giornali vecchi e delle bottiglie vuote» e «la ridondanza materiale dell’uomo solo». Bianca è bellissima e cieca, vive in una stanza di cartongesso e parquet, scrive poesie nell’aria ritmando i versi in un registratore, li riascolta e li plasma. Un giorno Stalin aggredisce il suo patrigno, un ex-raver attratto come lui dalle tensioni domestiche, e deve scappare. Nel suo flusso interiore, Stalin ha registrato la scena due volte: quando l’allarme è diventato talmente forte da vedere il sangue (e credere di aver ucciso) e da una nuova presa di coscienza, mentre «la biomeccanica dell’uomo adulto soppianta quella del ragazzino». Stalin prende Bianca e corre in Vespa circondato dalla neve e dai campi ghiacciati, Bianca gli tocca i capelli («Li hai tagliati di nuovo, lo sapevo. Ti avevo detto che stavi bene, e tu li hai tagliati subito») e gli dice che andrà tutto bene perché «La rabbia è soltanto un ostacolo»: è l’inizio del viaggio di Stalin e Bianca, anzi, di Stalin+Bianca e del loro veloce volo.

Stalin+Bianca di Iacopo Barison è il libro edito da Tunué nella collana Romanzi (d’esordio), curata dallo scrittore fiorentino Vanni Santoni. Un racconto visivo e istantaneo, che colpisce specialmente per la sua intensità descrittiva quando la città isotropa («La capitale») diventa un campo lungo di palazzi altissimi che «sembrano appesi al cielo», di scorci urbani irregolari, bisettrici deserte di asfalto e palazzi dimenticati. Fuori dalla capitale, fra relitti e nuove forme di banditismo, orizzonti prefabbricati di strade sporche e baracche marcescenti, terra umida e città industriali in una patina indefinita di freddo e vapori chimici: una sintesi contaminata di «progresso confuso nelle litanie degli uccelli». Non lontano, c’è perfino un museo del degrado ambientale e si farebbe davvero presto a pensare a uno scenario postatomico di civiltà estinte, non fosse che il tempo del racconto è invece quello presente, o la proiezione di un futuro prossimo nella sua difficile modernità. E che l’uomo attuale s’è dimenticato, anzi, assuefatto a una certa bruttezza della schiuma metropolitana.

Per intenderci, in una falsa prospettiva apocalittica, reiterano nel racconto i ragazzi con la maschera antigas, che serviva per difendersi dai lacrimogeni e poi hanno trasformato in un messaggio ecologico: «La maschera è un simbolo, e come tutti i simboli rimanda a un’idea precisa. Vorrebbe cambiare le cose. Non sapendo da dove iniziare, si limitano a filtrare l’aria». I ragazzi con la maschera antigas vanno a farci shopping o, sfumati nell’effetto strobo, si convalidano fra sentimenti basici ed emozioni contestuali: succede in una discoteca che diventa il falso metanarrativo di mondi postnucleari, detriti e cenere, meteroriti e ghiacciai… «Tutti i finali possibili in un colpo solo». La maschera antigas e l’apocalissi atomica sono però soltanto mode a sfondo politico, auge di impegno civile, perché nel racconto ci sono soprattutto le persone normali del nostro presente, uomini e donne «derivati di solitudine» .

L’alienazione è diventata rassegnazione, il pessimismo realismo e su un murale c’è scritto che I POPOLI HANNO FINITO L’OPPIO. La città è il proscenio dell’atomizzazione degli esseri umani nell’epoca dei social-network che, come in uno spettro del paradosso binario, hanno invece sgretolato ogni circuito informativo: «Abbiamo seminato eventi, dati, circostanze, informazioni ripetibili… L’origine della crisi è sepolta sotto un cumulo di risorse umane, teorie scientifiche e suggestioni cabalistiche». Ancora: «L’atmosfera è quella dei sogni tristi, l’onirismo della vita sociale, di persone morte che comunicano fra di loro nei medesimi idiomi imparati da vivi». Barison scrive la decadenza di un capitalismo ormai estinto ed evolutosi in forme marginali nella «patina grigia che è di tutti», e sceglie con perfetto cinismo gli Starbucks e i vegburger per tenere insieme, come su un ponte pericolante, i simboli di una contestualità presente e la distopia di una deriva post-consumistica.

Tornando alla storia del racconto e all’arrivo di Stalin+Bianca nel palazzo dimenticato della capitale, all’ultimo piano, in monolocali senza invetriate e scaldati da pattumiere di combustioni miste, vivono gli altri personaggi della storia, artisti di strada che si esercitano al suono delle correnti. Ci sono il ragazzo della dubstep, una ballerina di musica islandese che «disegna cerchi con gli occhi chiusi», un giocoliere, un musicista: sono in dieci e dominano la città dall’alto («Le sigarette illuminano i nostri sguardi, rivolti ai profili dei palazzi adiacenti e ai bagliori di automobili lontane chilometri»). Qui si modellerà la missione di Stalin, la rappresentazione di tutte le macerie dell’immaginario contemporaneo, la ripresa di un lungometraggio che «prenderà forma da solo, assecondando il flusso della realtà, come una formula che rimanda al concetto di cui è simbolo», alla ricerca di un campo totale e lunghissimo oltre ogni possibilità tecnica.

Stalin è infatti un moderno Dziga Vertov, l’uomo con la macchina da presa che per lui è come una coperta di Linus, una videocamera che diventa energia costruttiva e lo protegge, con i suoi grandangoli in terza persona, dal disturbo comportamentale: «È come se avessi toccato il fondo, e la metropoli e il palazzo dimenticato funzionano da ricettori delle mie pulsioni. Catalizzatori logici che intervengono all’origine del disturbo, normalizzando i livelli di adrenalina». Per questo la sua narrazione disorganica è sempre sospesa da una voce interiore; per questo la prosa di Barison diventa un’urgenza riflessiva e i dialoghi del suo racconto, saldati del resto in una breve essenzialità, come riempitivi di una sovrastruttura emozionale. Perché Stalin, anzi e ancora, Stalin più Bianca sono destinati a un lungo assolo, a un’altra drammaturgia: «Senza soldi. Senza un piano. Due ragazzi che attraversano la nazione per entrare e uscire da un museo d’arte contemporanea» per l’esigenza di raccontare una storia in frammenti.

Come in un film, e come non pensare a Stalin+Bianca senza le sue incontrollate pulsioni cinematografiche, dalle pellicole citate (L’atalante, Bànde a part, i 400 colpi, un certo filone gangsteristico, i film con Godzilla…) ai residuati più romantici («Jean aveva appena smesso di piangere e i suoi occhi erano il tramonto infuocato di certi film western») fino a una nuova focale entropia dall’ultimo piano del palazzo dimenticato: «Inquadro scorci di cemento e calce, poi mi concentro sugli zoom panoramici e sulle luci della metropoli, che ricordano il Technicolor dei vecchi film, quelle tonalità accese e irreali delle pellicole di James Dean». Allora Stalin + Bianca, che non è un romanzo (di formazione), diventerà un film per elezione naturale: la RedIbis, casa di produzione torinese di Daniele Segre, s’è infatti assicurata i diritti cinematografici del libro, perché come dice Stalin e scrive Barison, «La cultura visuale è una cosa seria, ben diversa da quella dell’apparenza». Quali saranno le città senza nome del film? Certamente le nostre, un po’ ucroniche, in un tempo neutro un po’ futuribile. Avranno la matricola abrasa, e non ci saranno più gli arcobaleni.

Stalin+Bianca