Andrew Haigh, dopo il premiato 45 anni, torna dietro alla macchina da presa per un secondo dramma cechoviano, in cui «i poli del racconto» sono due, Adam (Andrew Scott), un timido sceneggiatore televisivo con un passato doloroso e Harry (Paul Mescal), l’unico altro inquilino di un condomino/grattacielo ‘a finestre ampie’ (high-windowed flat li chiamano in Inghilterra) da cui si intravede la skyline londinese. Si conoscono una sera, al settimo piano, Harry, mezzo ubriaco, bussa alla porta di Adam e gli chiede di entrare per bere un po’ di whiskey giapponese insieme, o «fare qualsiasi cosa [Adam] abbia voglia», perché si sente solo, ma Adam rifiuta, ha appena iniziato a scrivere dei genitori scomparsi durante l’infanzia per un incidente stradale. È il prologo di una messinscena buia, concentrata sul primo piano, in cui l’esposizione è spesso soffocata, diluita, combinata a un montaggio che fa della dissolvenza il più evidente degli indicatori meta-testuali ‘dello scorrere spaziale del tempo’. Nel film, infatti, la dimensione temporale è rarefatta, la vicenda tra i due è sempre immersa in un plastico presente agostiniano, e anche il passato di Adam resta un passato che mantiene come interprete il presente; le distanze, soprattutto temporali, nel film sono sempre riprodotte in termini spaziali: la lontananza tra il condominio e la city, tra il condominio e la casa dell’infanzia a Sanderstead, un sobborgo di Londra – alias il percorso quotidiano tra presente e passato -; lo spazio dei corpi di Adam e Henry che piano piano si riduce, la distanza dai genitori, gli abbracci mancati, la scelta del padre di Henry di non consolarlo quando da piccolo lo sentiva piangere nel letto la notte. Il tempo, dunque, declinato in senso spaziale costituisce la piattaforma su cui Haigh imbastisce il dramma tridimensionale del protagonista, come scrive a ragione Capra: Adam è solo in quanto orfano, omosessuale e come essere umano.

Il principio dell’iceberg

Secondo Hemingway, chi scrive dovrebbe concentrarsi esclusivamente sulla superficie di un fenomeno, di un’emozione. La metafora, arcinota, è quella dell’iceberg (ne si trova traccia, per esempio, in Viaggio Americano (Bompiani, 1997) di Fernanda Pivano, o in Festa Mobile (Einaudi, 1964)): come la mole del ghiaccio è per lo più nascosta sotto il pelo dell’acqua, così la scrittura deve lasciare gran parte del messaggio inevaso. In Estranei, credo che Haigh ribalti il principio, e costruisca un personaggio, Adam, che gratta compulsivamente la superficie dell’acqua. Ciò che è capovolto, però, non è la mole dell’iceberg, bensì il punto di vista da cui lo si guarda, a testa in giù, spesso irrefrenato, impaurito. Parallelamente, la solitudine dello scrittore (altro saldo principio hemingwayano) diventa la solitudine di chi «conosce poco il reale», cioè l’insondato. Il regista raccorda i capi di questa intercapedine – la distanza (spaziale ed emotiva) tra i poli dell’iceberg – plasmando i tratti gotici del romanzo di Taichi Yamada (da cui il film è liberamente ispirato) in proiezioni fantastiche, che mimano e amplificano la bulimia mnestica del protagonista.

Il The New Worker ha scritto che Estranei è un film che parla di ‘recollecting’, ossia (più o meno) ricordare, che dall’etimo latino significa ri-portare qualcosa vicino al cuore. A questo, riguardo il film, aggiungerei la necessità di appartenere, nella miglior tradizione (poetico) romantica – non è un caso che la pellicola sia stata girata proprio nella casa d’infanzia del regista. Allora Adam riformula lo spaziotempo in cui scende le scale in pigiama il giorno di Natale, o le cene con i propri genitori. Lo schema di Haigh è sempre tridimensionale, Adam e i due genitori di fronte, divisi da due contro-campi, immersi in una luce dispersa che accentua a livello spaziale l’atemporalità. Nella sequenza in cui Adam porta i genitori a cena nel suo ristorante preferito questa dimensione amniotica implode; le conseguenze della solitudine (o dell’amore, direbbe Sorrentino), alimentano un dialogo che, verso la fine, sembra una preghiera, quella di Adam, «restate, non andate ancora via». Mi pare la stessa implosione in Manchester by the Sea (Kenneth Lonergan, 2016), se guardo la scena in cui Lee e Randi si incontrano per caso in città e lei lo prega di ascoltarlo, vuole sapere se potranno mai pranzare insieme, ha bisogno di dirgli che non pensa ciò che di cattivo gli ha detto in passato. Ecco, Estranei parte da qui – il ‘rifiuto’ iniziale di Adam -, da una verità empirica spesso banalizzata: in effetti sembra retorico, ma a volte si è in tempo, a volte no, a volte «il cuore resta rotto» come dice Randi a Lee. Estranei, mi sembra, suggerisce di avvicinarsi per soffrire di meno. Una ‘soluzione’ asciutta, potente, questa sì, un po’ hemingwayana, ancora a testa giù, come la camera a plongée finale sulle note di The Power of Love, in cui ritorna prepotente il tono fantastico – intuizione azzeccatissima di Haigh, che per certi versi mette al riparo dallo stereotipo «del trauma come cliché» paventato da Sehgal (ripreso da un articolo de Il post): il fantastico (etimologicamente, ‘far vedere’) evidenzia che l’identità di Adam non è riducibile al suo passato; si tratta, al contrario, di una ricerca delle corrispondenze, di un’evasione. Poco importa che il legame sia tra te e qualcosa che non esiste, basta «una foresta di simboli» (scrive Baudelaire) per affrontare i propri fantasmi.

L’estate con gli sconosciuti

L’idea di Haigh di costruire una storia in bilico tra realtà e irrealtà per cui i personaggi che circondano Adam risultano come allucinazioni ha una funziona precisa, ossia indicare che «le cose sono solo relazioni» da mettere in comunicazione, di conseguenza, quale miglior strumento dell’immaginazione/allucinazione – in termini molto generali, anche dal punto di vista neurologico, la solitudine è intesa come una patologia che complica l’instaurazione di relazioni sociali a causa di un’infiammazione che colpisce in particolare la regolazione delle emozioni (cioè anzitutto le zone sottocorticali dell’amigdala e dell’ipotalamo). È il suggerimento che risale almeno al testo buddista Il cammino di mezzo (Edizione Multilingua, 2004). Di recente, Carlo Rovelli l’ha citato in un’intervista per descrivere la natura delle dinamiche quantistiche, che allo stesso modo credo restituiscano l’idea spaziale del passato come relazione che Estranei porta con sé.

Tradurre è sempre un gioco pericoloso, rivelatorio, in particolare per Estranei, se pensiamo che la traduzione fedele del titolo giapponese del romanzo da cui è tratto il film, suonerebbe tipo L’estate con gli sconosciuti, oppure L’estate con le persone strane, cioè Adam e Henry. Strani, loro, per chi li guarda, perché silenziosi, gay, inceppati, fuori dal mondo, mentre provano a prendersi cura l’uno dell’altro.  Haigh ha trovato la sua risposta alla domanda delle domande: «come ci si innamora?», chiede Cathleen Schine in La lettera d’amore (Adelphi, 1996), «si casca? si inciampa?» La risposta di Haigh è, scrivendo.


Andrew Haigh, Estranei, titolo originale All of Us Strangers, USA 2023.