Oltre che uno dei più originali e discussi autori contemporanei, Antonio Moresco può essere considerato a pieno titolo un pioniere della letteratura online. Ma un “pioniere-asino” (parole sue) che vive come un “aborigeno”, senza casella mail personale né profili social. L’animatore di «Nazione Indiana» (2003) e de «Il primo amore» (2005) vive paradossalmente a distanza dalle interfacce digitali, nonostante sia ben consapevole della potenza e del valore dei nuovi strumenti. Al Festival di Mantova si è parlato a vario titolo di web, universi digitali e rapporto tra letteratura e nuovi media. Ascoltare Moresco che discute sul tema – seduto su un tavolino di un bar a Mantova, con il Festival ormai agli sgoccioli – significa adottare un punto di vista insieme eccentrico e “da addetto ai lavori”. Oltre i soliti cliché che dipingono il web come terra promessa, babele o prigione immateriale, Moresco restituisce una visione pragmatica e più umana. Senza facili infatuazioni, e senza perdere la radicalità che contraddistingue il suo percorso letterario-culturale, basato sull’abrasione, la lotta e l’assenza di compromessi.

Il fermento e il caos che invadono Mantova durante il Festival hanno qualcosa del web 2 o 3.0. Innumerevoli flussi di parole e informazioni scorrono contemporaneamente e in direzioni diverse. Mantova (come la rete?) è un mare magnum o una boccia di vetro?

Secondo me Mantova è tutte e due le cose assieme, sia un mare magnum che una boccia. Sembrano due cose in contrasto, ma credo che si muovano queste due possibilità dentro la stessa cosa. È un mare magnum per tutte queste iniziative, queste persone che si incontrano, i legami che si intrecciano e si sciolgono nel giro di pochissimo tempo. E spesso al Festival hai anche delle sorprese molto buone. Chi critica questo tipo di iniziative tralascia di vedere o di capire che ci sono degli esseri umani che si muovono. Non puoi ridurre tutto a un’idea positiva o negativa, giudicare le cose sulla base di una piccola teoria. Allo stesso tempo Mantova è anche una boccia di vetro. In questo momento le librerie sono vuote, pochi comprano i libri, l’editoria vive una crisi generalizzata. Festival pieni e librerie vuote: bisogna considerare questo paradosso. Ai festival – dove tra l’altro alcuni incontri sono a pagamento – c’è un mare di persone, che poi non vanno a comprare i libri.

Ieri pomeriggio Jeremy Rifkin ha proclamato la sua fede nella rivoluzione digitale e nell’economia della condivisione. Pensi che il web significhi solo democrazia, partecipazione e intelligenza collettiva? O ci sono anche dei lati oscuri e opachi da tenere in conto?

Sono convinto che ci siano dei lati oscuri. Le teorizzazioni come quella di cui mi hai appena parlato vedono sempre solo l’aspetto luminoso: la rivoluzione digitale è un’espansione della democrazia, sembra che andiamo verso paradisi a portata di mano, di volta in volta diversi… Queste posizioni colgono un aspetto reale, ma non vedono l’altra faccia della medaglia. Attraverso la rete si può anche esprimere il più grande e totalitario dei domini sulle persone e sulle menti, come mai è successo nell’arco della storia, in cui non c’è mai stato un mezzo così pervasivo, capillare, con cui poter arrivare a ognuno. Pensiamo anche a come sono nati una serie di imperi dentro la rete. L’entusiasmo superficiale e un po’ astratto che vede nella rete sempre le “magnifiche sorti e progressive” (come diceva Leopardi) contiene anche un elemento di inganno e ciarlataneria.

L’universo dei blog e siti letterari è in perenne espansione. Credi che il dibattito critico-letterario si stia spostando in massa verso i nuovi territori virtuali? Il web cambia modi e contenuti della critica? Assistiamo a un intasamento del canale o a un’effettiva estensione degli spazi di manovra?

Credo che quella cosa che si chiamava critica sia in una situazione penosa in Italia. Un tempo – nel bene o nel male – la critica letteraria in qualche modo poteva servire a distinguere e a salvare. Poteva fare un lavoro di orientamento forte, anche se poi era attraversata da logiche tribali, conventicole odiose e insopportabili. Non mi vengono in mente scrittori o poeti radicali e importanti che debbano la loro fortuna alla critica: sono venuti fuori magari attraverso la solitudine, il conflitto, il livello di quello che hanno fatto e il modo in cui hanno raggiunto dei lettori da cui sono stati capiti, salvati e amati. La critica aveva però il compito di arare il terreno, di rigenerarlo, metteva in moto dei passaggi tra una generazione e l’altra che potevano avere anche qualcosa di buono. Adesso i critici sono dei morti che camminano. Non hanno coraggio, non hanno visione… Poi ci sono le eccezioni, generalizzare è sempre sbagliato.
Dalla rete è venuto uno sparigliamento assoluto, un rimescolamento di carte che non può che essere positivo. Anche se si porta dietro degli aspetti facilmente criticabili, su cui si può fare dell’ironia: l’intasamento, la confusione, lo scaricamento di rancori e frustrazioni. Ma nella situazione di blocco, di paralisi, di mancanza di coraggio, visione, sentimento e pensiero da parte della critica, la rete ha avuto almeno il ruolo di una grande ventata di aria fresca che ha sparigliato tutti i giochi. Per quanto mi riguarda, la rete mi ha aiutato molto mentre venivo attaccato (violentemente a volte) dalla critica ufficiale sui giornali, perché avevo espresso delle posizioni che non erano canoniche e toccato dei punti nevralgici su cui la cultura in Italia si regge. Paradossalmente, io che sono un asino e non sono in internet né su Facebook, ho però trovato nella rete delle cose che mi hanno aiutato molto come scrittore, e che forse mi hanno addirittura salvato: hanno permesso ad altri lettori di leggermi e quindi mi hanno permesso di continuare a pubblicare libri. Se era per la critica ufficiale… è stata una lapidazione in certi periodi. Non posso che avere riconoscenza per tutte le persone che mi hanno sostenuto, e no so neanche che faccia abbiano.
D’altra parte sappiamo tutti che la rete non è il paradiso, e che lì dentro tendono a scatenarsi le stesse dinamiche che troviamo all’esterno. Ma di fronte alla sfilata di cadaveri a cui è stata ridotta la critica italiana, ben venga il casino la confusione il caos della rete.

Un bilancio della sua esperienza digitale con «Il Primo Amore»?

Il Primo Amore è nato qualche anno fa dopo una divaricazione rispetto a «Nazione Indiana». C’erano idee diverse su alcune cose, la scelta è stata quella di non ripetere le stesse dinamiche mortifere delle riviste e dei giornali, a base di divisioni cattive o espulsioni. Invece – dopo aver preso atto delle differenze – me ne sono andato e ho preferito non fare una guerra di posizione. Adesso ci sono due siti, piuttosto che un solo sito portato avanti sulla base di una scissione. La mia esperienza ne «Il primo amore» è stata intensa per molto tempo: ci si vedeva tutti i mesi a Milano con gente venuta da città diverse dell’Italia, si parlava, si lanciavano i temi per gli articoli ma anche per la rivista cartacea, di cui uscirà adesso con ritardo mostruoso l’ultimo numero, intitolato La metamorfosi. Però appunto il problema è che noi siamo di fronte a una metamorfosi. «Il primo amore», così com’è, ha poco senso ormai. Personalmente è un anno che non partecipo alle riunioni perché ho avuto bisogno di staccarmi, ho chiesto un anno di raccoglimento. In ottobre ritornerò a partecipare, ma vorrei porre il problema, e non so ancora come e cosa verrà fuori…bisogna rivedere il progetto profondamente. Non mi sembra che abbia più molto senso un piccolo sito, anche se a suo modo con delle cose belle e delle eccellenze. Dobbiamo porci il problema della presenza in rete di quello che stiamo cercando di dire in una maniera molto più ampia, cercando di lanciare delle proposte anche verso l’esterno, che abbiano una caratteristica dirompente nei confronti dell’oggi. Non so ancora come, ma credo che anche noi dobbiamo ragionare su chi siamo e non accontentarci di cosa siamo, andare verso una metamorfosi chiedendo incontri, momenti di espansione, di irradiazione dentro la rete.

Come mai voi che perseguite in maniera così radicale lo “sconfinamento” avete rinunciato ai commenti ai post?

Hai ragione, questa è una decisione che abbiamo preso, non so se giusta o sbagliata. C’è stato molto dibattito dentro le nostre riunioni: ci rendevamo conto del fatto di come la scelta di eliminare i commenti poteva apparire addirittura odiosa. L’esperienza di Nazione Indiana – dove c’erano i commenti – ci ha portato a questa conclusione. All’inizio i commenti erano pertinenti a quello di cui si parlava – indipendentemente dal fatto che fossero di approvazione o di critica – poi man mano si scatenava qualcosa che non c’entrava più niente: persone che dialogavano o si insultavano tra di loro. Poi c’era un’altra anomalia che non potevamo accettare, riguardo alla questione dell’interfacciamento, dell’essere visibili o meno, che è proprio una caratteristica della rete. Noi, che scrivevamo gli articoli, eravamo visibili, tutti sapevano chi eravamo. Chi rispondeva ai commenti, spesso e volentieri, entrava in modo anonimo, attraverso la maschera di altri nomi. Non ci sembrava giusto: o tutti sono coperti (ma allora cos’è la rete, un ballo in maschera?) o tutti sono scoperti, nudi. Ci trovavamo a dover confliggere con persone che indossavano una maschera, mentre noi eravamo nudi e crudi. Allora abbiamo preso questa decisione che da un certo punto di vista ci ha penalizzato. Tagliando i commenti gli accessi si riducono moltissimo, è stata una scelta drastica.
Ho incontrato poco fa una persona che ha un blog tra i più noti e visitati in Italia…lei aveva criticato la nostra scelta vedendola – secondo noi a torto – come elitaria. Mi ha detto che forse avevamo ragione a compiere quel gesto drastico e che, lungi da costituire un dialogo, per quanto incasinato, violento e vitale, i commenti rischiano di essere un accumulo di schiuma, che rende poi impenetrabile le cose vere, le cose che avvengono dentro. Detto questo, credo che dovremmo trovare una qualche forma di collegamento e di interazione, senza che sia appunto una produzione di schiuma inutile.

Sono passati 9 anni dal tuo importante discorso al Salone del Libro sulla “restaurazione“, da cui nacque la scissione tra «Nazione Indiana» e «Il primo amore». Se posso chiederti…oggi, a che punto è la notte? Quali sono gli obbiettivi e le strategie per resistere? Che ne è della «fioritura di opere e persone» da te evocata? Ha avuto e ha ancora senso sentirsi gli ultimi eroi che combattono il mondo chiusi in una sorta di riserva?

Quella cosa che ho chiamato restaurazione – prendendo il termine dal passato, ma forse bisognerebbe inventarne uno nuovo – mi sembra che sia in pieno svolgimento, anche se stenti a riconoscerla perché si presenta sotto forme nuove. A volte ha un aspetto euforico. Sospetto che anche la posizione a cui si accennava prima, questa sorta di ottimismo astratto, sia la maschera odierna della restaurazione. Credo che la restaurazione sia non solo ancora in atto, ma in piena fioritura. Ho cercato anche altre forme di movimento dentro una situazione brulicante ma allo stesso tempo bloccata. Per esempio quella del cammino, dell’unità psicofisica che si determina attraverso lunghi cammini con un numero di persone crescente…un modo di mettere in movimento sentimenti, visioni, desideri, cuori, pance, menti. Se no anche la rete, per quanto espansiva, può diventare una boccia di vetro. E c’è bisogno sempre di rompere la boccia di vetro. Lo spostamento radicale dei corpi nello spazio è una maniera di rimettere in movimento anche la vita delle persone, e spostare i limiti che ti imprigionano, anche quelli della rete.
Rispondo poi alla domanda sugli eroi, è una bella domanda. Eroi o non eroi, non riesco a vedere un momento in cui si possa vivere in un mondo pacificato senza combattere, senza esprimere delle diversità. Non lo vedo adesso, non c’è mai stato in tutta la storia del mondo, e neanche in questi paradisi più o meno artificiali che ci vengono prospettati potremo vivere in una maniera arresa a un mondo armonico. Credo che ognuno, se sente questa urgenza di lotta, non deve arrendersi.
In questo momento le forze che hai di fronte sembrano così soverchianti, e così piccole e misere quelle che tu possiedi che ti sembra vano e inutile combattere. Ma non è così, perché ciò che hai di fronte è forte anche perché non è mai sfidato completamente, ma se tu lo sfidi completamente capisci che tu sei più forte e che lui è più debole. Forse la sua pretesa di onnipotenza viene dall’impressione che non si possa più rompere un modo di vivere che ci sta portando alla distruzione. Sappiamo tutti qual è il rapporto della nostra specie con il pianeta, la saturazione dell’ambiente, il fatto che stiamo consumando le risorse addirittura di 4 generazioni più avanti di noi. La nostra specie va verso la disfatta se non modifica radicalmente il suo modo di essere. Pur stando nella rete, pur amando certi aspetti della rete ed essendo riconoscente ai momenti di radicalità umana e di incontro che si possono realizzare, io non credo a questo paradiso informatico che ha dietro dei guru e dei padroni con interesse a diffondere un’idea di armonia generalizzata. Stiamo vivendo una situazione di specie drammatica, e tutti ce la nascondono. E ce la nasconde a volte anche la rete, dando l’idea che possiamo ancora espanderci nel mondo. No, noi viviamo in un mondo che abbiamo saturato, un mondo chiuso: il nostro pianeta è una boccia, perché ha dei confini. Se tu consumi tutto sei come una metastasi tumorale che porta alla morte l’organismo che lo contiene. E questo non è cessato, è più grave di ieri, e ogni giorno lo è ancora di più. Che siano eroi o che non siano eroi c’è bisogno di persone che combattano e che dicano come stanno le cose.

Secondo lei è possibile invertire la tendenza e diventare più rivoluzionari, più incendiari con l’età?

Guarda, io credo di sì. Magari entrano in metamorfosi le forme. Da ragazzo ho partecipato, credendoci e bruciando la mia vita, a tutta una serie di esperienze rivoluzionarie. Però erano all’interno di logiche che vedevano il mondo e la vita in un modo piatto, solo attraverso la dimensione storica, storico-politica, economica, sociale. Quella è la punta dell’iceberg, sotto c’è il grosso. Che non veniva toccato, difatti tutte le rivoluzioni sono fallite. E sono fallite anche per la loro piattezza storicistica, economicistica, nel senso di vedere gli uomini come una sola relazione sociale e non come tutto il resto che invece c’è sotto. Adesso vedo un po’ di più tutto il resto rispetto ad allora e quindi, lungi dal sentirmi arreso e pacificato, sono più ribelle di quando avevo vent’anni.