Matteo Marchesini pubblica per Elliot il volume Scienza di niente, un’ampia antologia di saggi di varia estensione – dal breve articolo giornalistico all’ampio affresco – dedicati a figure capitali della modernità (poeti, narratori, filosofi, come recita il sottotitolo del libro), e apparsi tra il 2009 e il 2020 su vari quotidiani e riviste on line. Ad aprire la raccolta è un saggio ulteriore, titolato surrettiziamente Premessa e che invece è una piena, articolata e diffusa confessione di metodo, di poetica, di intento critico. Un bilancio che Marchesini compie nella sua piena maturità di scrittore (varcata la soglia dei quarant’anni, e nonostante questo ancora circonfuso da una felice aura da enfant prodige delle lettere che molto gli invidio e che ha sempre generato in me, allo stesso tempo, una simpatia per lui fraterna, da fratello maggiore ammirato e geloso del suo talento). La veste critica di Marchesini non è meno creativa e originale della sua militanza narrativa o poetica: un critico è per lui, semplicemente, uno scrittore che scrive di libri e di altri scrittori, quello è l’oggetto del suo altissimo artigianato antiaccademico e nemico dello specialismo (da qui Scienza di niente del titolo), svolto all’insegna di un’investitura e militanza fortiniana. Marchesini propone un’idea di critica, non come mediazione «fra autore e lettore ma fra l’opera e quel che l’opera non è» (vedi l’illuminante saggio Fortini come Eliot, pp. 237-247, che prende spunto dal volume Chiusi inchiostri, dedicato a Fortini da Pier Vincenzo Mengaldo), che diventa nella confessione programmatica marchesiniana «parlare attraverso i testi di ciò che testo non è» (Premessa, p. 19).

Da un certo punto di vista, Scienza di niente è anche un serrato dialogo col “mestiere del critico”, e ricorrenti sono i nomi dei suoi illustri colleghi della professione (Franco Fortini, Cesare Cases, Cesare Garboli, Geno Pampaloni – al quale è dedicato un affezionato ritratto che funziona anche da riflettore su un nome da riscoprire e che segnalo come molto riuscito, Come se dio fosse, pp. 250-254 – Giovanni Raboni, Piergiorgio Bellocchio, Luigi Baldacci, verso il quale Marchesini riconosce di avere un debito ideale…). Possedere un’idea di critica significa avere un’idea di letteratura, cioè di quale spazio, di quale ruolo occupi nel mondo e nella vita delle persone – o possa occupare ancora – la letteratura. Marchesini allora farà parte di quella schiera di critici che (cito dalla sua confessione) «continuano a pensare che nella nostra società la domanda sul “come vivere”, insieme a una certa verità insocievole e a una certa saggezza, sia ancora legata alla letteratura; e perché continuano a pensare che se una letteratura priva di critica non è più tale, anche una critica scissa dal commercio con altri generi letterari appare difficilmente immaginabile» (pp. 27s.). Ma c’è ancora spazio per questo modello ideale di critica? Tra la critica “promozionale” delle recensioni che sembrano fascette pubblicitarie e il gergo iperspecialistico dell’Accademia, che gonfia e svuota allo stesso tempo l’oggetto del suo studio, vi è spazio per una critica che sappia ancora essere alimentata da un sapere filosofico e sappia leggere i testi e i contesti sociali e culturali allo stesso tempo? Sì, e no.

Leggendo i quasi sessanta saggi che compongo il volume più volte mi è capitato di pensare che, forse, il lettore modello di queste prose non esiste più, o non esiste ancora. Da qui l’idea di battezzare come “inattuali” (in senso nietzschiano), queste prose di Marchesini. Faccio un esempio capzioso, per fare prima, e ritaglio dal bell’articolo Croce sotto spirito (va bene, decontestualizzando un poco) una frase sul finale: «In questo senso, molta fenomenologia si è rivelata assai più astratta dell’idealismo che intendeva superare, perché mancava di intuito ermeneutico di fronte alla vita, ed era dunque destinata a smarrirsi nel farraginoso gergo pragmatistico che predica l’andata “alle cose stesse” ma non la pratica mai» (p. 79). Quale studente universitario di letteratura italiana, ma anche di filosofia, e non necessariamente al primo anno, saprebbe oggi decifrare compiutamente questo passaggio? Non è un problema di gergo, è un problema di condensazione. Esiste ancora lo spazio (cioè il pubblico, cioè quindi anche lo spazio di pubblicazione) per una critica non accademica di tipo condensativo, che attraversi saperi diversi? Marchesini ci avverte, del resto, che i “tecnocrati dell’umanesimo” contemporanei difficilmente dimostrano di aver letto Garboli, o Baldacci, se non Adorno o Fortini che vengono trattati come “autori di assiomi” senza riuscire a coglierne le straordinarie capacità dialettiche. Inoltre, porsi domande sulla letteratura significa per lui “mobilitare la propria intera esperienza umana” e in questo non è possibile non scorgere un forte richiamo etico.

Il tema dell’ethos, del resto, attraversa il volume e dove è più visibile  – in un percorso che è anche, per esplicita ammissione dell’autore, un “diario intellettuale” – la sua simpatia/empatia verso lo scrittore di cui parla (penso ai saggi in cui si tratta di Etty Hillesum, o Giorgio Colli, o Čechov o Joseph Roth o Fortini, o Tozzi o Mandeľštam o Proust), là Marchesini illumina al meglio la sua prosa e produce immagini di grande suggestione (vedi «l’intercapedine sottilissima di materia sconosciuta» che «separa la fede di Weil e Hillesum dall’assurdo di Camus», in Tutta la vita, p. 224; o ancora le felici sintesi del percorso poetico di Mandeľštam dove «l’impeccabile acmeista, nel nitore senza residui del suo arco costruttivo, liquida ogni indefinitezza e fa anche dell’io un seme che deve morire per dare il frutto», in Poesie di cristallo, p. 155). La circostanza che l’oggetto delle analisi marchesiniane di questo volume siano autori in gran parte primonovecenteschi, e che quindi sia la modernità e le sue eredità al centro delle investigazioni – o, detto altrimenti, il fatto che gli autori di cui parla sono praticamente tutti morti – mette al riparo il volume dalle spumeggianti polemiche che in genere accompagnano gli strali critici che il nostro riserva agli scrittori in attività. Questo è un vantaggio, perché permette di valutare con maggiore lucidità la proposta critica di Marchesini e ci fa rivolgere lo sguardo, rinnovandolo, a figure già “monumentalizzate” come Gadda, Ungaretti, Montale. Piccole stoccate vengono riservate a questi monumenti (Gadda come lo Jacovitti della Letteratura, Montale “gran sarto depresso del Novecento”, Ungaretti come cattivo maestro del “poetese medio del nostro Novecento”), ma sono perfidie dolcissime, che anzi ci invitano a non smettere di scrutare le pieghe, e le crepe, di quei monumenti. Ecco, questo tema del rinnovare lo sguardo, il punto di vista (che è soggettivo, condensativo, figlio di letture ossessive e vaste, a volte variamente più o meno argomentato o ironico) su ciò che viene dato per univocamente assodato è un tratto peculiare e fecondo del saggismo marchesiniano qui all’opera. Il lettore, così, è invitato a vagabondare con lui tra poeti, narratori e filosofi moderni con uno spirito centrifugo: leggere un saggio e ricevere la spinta a leggere l’autore o il libro di cui il saggio sta parlando.

A queste prose dense, compatte, condensative (in senso freudiano) rimprovero soltanto la forma grafica un poco monolitica, più gestibile nei saggi che conservano la forma breve dell’articolo di giornale, e meno nella messa in pagina di quelli che hanno beneficiato, alla loro nascita, dello “scrollare” libero sul web, quindi di maggiore corposità. L’effetto, per il lettore, è quello di una certa apnea nell’inseguire i concetti, le citazioni, i punti tematici, gli snodi critici, i nuclei di senso senza il conforto di una piccola area di sosta bianca per gli occhi, tra un paragrafo e l’altro, dove far tirare un poco il fiato alle meningi. Del resto tutta la scrittura di Marchesini mi pare applicare sempre e perfettamente uno degli aforismi di Wittgenstein che preferisco (autore citato una sola volta in tutto il volume, deficit che non gli perdonerò mai, insieme alla sua perniciosissima sottovalutazione di giganti come Manganelli e Zavattini), una frase tra le più programmatiche e inascoltate della nostra età: “Lascia al lettore ciò di cui il lettore è capace”.

Pisa, novembre 2020


Questi appunti, che non hanno la pretesa di costituire una recensione al volume in senso stretto, sono stati scritti originariamente in forma sintetica in vista di una conversazione pubblica con Matteo Marchesini, organizzata dalla libreria Les Bouquinistes di Pistoia, a cura di Elena Zucconi e Paolo Beneforti, che si è svolta on line sulla pagina Facebook della libreria il 21 novembre 2020. Il video dell’incontro è visibile qui: https://fb.watch/1ZRx3cuLku/

Matteo Marchesini, Scienza di niente. Poeti, narratori e filosofi moderni. Roma, Elliot, 2020, pp. 345, € 20.