Questo articolo viene pubblicato in due puntate. Di seguito la prima:


La casa editrice Black Coffee ha mantenuto una promessa fatta ai lettori qualche anno fa e grazie alla curatela di John Freeman e Damiano Abeni (traduttore) continua il progetto dedicato alla divulgazione di alcune delle voci più interessanti della scena poetica americana finora inedite in Italia. Come già accaduto per il primo volume[1], anche questa volta quanto segue non vuole essere altro che un invito alla lettura della Nuova Poesia Americana, Vol. 2 (2020), per scoprire i poeti in essa inclusi: Kim Addonizio, Garrett Hongo, Lawrence Joseph, Kay Ryan, Aracelis Girmay e Kevin Young. Per quanto Abeni abbia dato prova in numerose sedi di essere uno dei migliori traduttori in circolazione, ci è impossibile confrontare la traduzione con il testo originale, una scelta editoriale che appare come l’unica pecca di questo interessante progetto.

È bene centrare l’obiettivo della lettura che segue, ribadendo quanto già espresso in quella del primo volume: ogni volta che in Italia esce una qualche antologia, troppo spesso ci si concentra su questo o quel curatore – e sugli amici e i nemici che una nuova antologia porta con sé. È difficile invece trovare articoli che si soffermino sulle singole epifanie dei poeti proposti in una antologia – quasi impossibile trovarne qualcuno che legga uno o due poeti in particolare, perché magari più interessanti degli altri. Oggi, poi, il pubblico della poesia ha quanto mai bisogno di nuovi invitati.

C’è da ricordare ancora una cosa: la condizione del poeta negli Stati Uniti è nettamente diversa da quella italiana. Questo salta subito all’occhio leggendo le note bio-bibliografiche dei poeti selezionati, tra Poeti Laureati e Premi Pulitzer, storie di attivismo e cattedre universitarie, che ne denotano un proprio posto nella società. Eppure, «Non conosco luogo capace di farti sentire più solo dell’America» sono le parole con cui Freeman ci introduce in questa antologia. È la solitudine che tiene insieme le sei voci poetiche proposte. Una solitudine – come per il primo numero – che passa anzitutto dalle minoranze, come la condizione degli hawaiani nella poesia di Garrett Hongo, l’esperienza di un arabo-americano nella poesia di Lawrence Joseph, o quella afroamericana in Aracelis Girmay e Kevin Young. È anche la solitudine che si prova nella roccaforte dei big data e in un mondo segnato dal collasso degli ecosistemi, con il senso di impotenza che questo comporta per il singolo.

Ciò che colpisce, ancora una volta, è la capacità degli americani di costruire l’oggetto libro, sempre centrato su un focus particolare. Si può essere o meno d’accordo sulla potenzialità espressiva che un confine tematico potrebbe in qualche modo determinare, ma ciò che è certo è che in questo modo il libro diventa più facilmente proponibile a un pubblico di lettori. E poi è un invito non solo ai lettori, ma ai poeti, a fare insieme, un pezzetto ciascuno, a parcellizzare il canto – una comunità delle voci che confida anche nella voce dell’altro. Prima di cominciare, infine, vorrei riprendere le parole con cui Freeman accolse questa avventura e sperare che diventeranno anche vostre: «ogni nuovo volume di questa collana sarà una specie di piccolo evento, anche perché nessuno di questi poeti è stato ancora pubblicato in italiano».

Kim Addonizio

Chi crede che la Beat Generation non abbia più niente da dire, non ha mai capito la Beat Generation. Ecco perché non bisogna storcere il naso leggendo come John Freeman presenta la poeta Kim Addonizio: «Da tempo legata alla città di San Francisco, Addonizio è diretta discendente della poesia beat di Gregory Corso». Con una differenza formale, però, perché se Jack Kerouac apriva Mexico City Blues (1959) con questo inciso: «Voglio essere considerato un poeta jazz che suona un lungo blues in una jam session d’una domenica pomeriggio»[2], Kim Addonizio è per Freeman una «regina punk rock dalla rima tagliente». Che il fascino del jazz sia offuscato è poi tutto da vedere, se pensiamo al successo che negli Stati Uniti, e non solo, ha avuto pochi anni fa un film come La La Land (2016) del regista Damien Chazelle. Certo è che il jazz non è più la musica da modulare nella poesia. Ma Addonizio sembra adottare comunque il principio spirituale della scrittura spontanea, laddove una poesia che prosegue incespicando trova all’improvviso una ispirazione dalle grandi aperture, come in Per il desiderio: «Io voglio questo mondo. Io voglio camminare | nel mare e sentire che cerca di trascinarmi | come fossi nulla se non un frammento scheggiato di vetro ! graffiato, e voglio resistergli».

In una delle ultime interviste rilasciate in Italia a Massimo Gaggi, Lawrence Ferlinghetti raccontava questo aneddoto, che sembra faccia da contraltare alla poesia citata di Addonizio: «Quanto a me, non sono mai stato un beat. Una volta io e Kerouac eravamo seduti sulla spiaggia di Big Sur davanti al Pacifico. Mi chiese: “Cosa ci sta dicendo il mare?”. Risposi, visto che tutti e due eravamo cresciuti parlando francese, “les poissons de mer parlent Breton” (i pesci parlano bretone, come bretoni erano le origini di Kerouac, ndr). Ecco, in quelle parole c’era il mio essere immerso nella grande beatitude di quel tempo, pur non essendo un beat»[3].

San Francisco, poi, è ancora oggi uno dei luoghi più antropologicamente interessanti degli Stati Uniti, dove una bohème che ha ereditato lo spirito della Frisco Beatnik convive a stretto contatto con i giganti della Silicon Valley. Anna Wiener, nel suo memoir La valle oscura, dopo avere lavorato sia per l’industria editoriale che per quella hi-tech e delle start-up, descrive una situazione che può suonarci molto simile, seppure in proporzioni diverse: «La verità era un’altra: non eravamo indispensabili. C’erano molti più laureati in letteratura inglese con un sostegno economico indipendente e sfilze di stage non pagati che posti liberi nelle agenzie letterarie e nelle case editrici. La riserva di talenti si autorigenerava ininterrottamente […] L’editoria faceva affidamento, in certa misura, su un elevato tasso di abbandono»[4]. Ecco che il luogo scelto da Addonizio, originaria in realtà di Washington D.C., si trasforma in una lente di ingrandimento privilegiata da cui comprendere il nuovo fermento del vecchio sogno che pervade da sempre gli Stati Uniti: quello dell’individuo che si compie da sé.

In Addonizio c’è anche spazio per ciò che l’immaginario collettivo associa da sempre alla Beat Generation, cioè lo sballo: «E non bere nei giorni feriali, chi se l’è inventato? | Non vorresti correre fino all’angolo adesso a comprare | una bottiglia di vodka e bertela col succo di mirtillo rosso | e una bella fettina di limone» scrive in Brava ragazza. Ma è bene ricordare che la Beat Generation non è stata solo sballo – e quasi mai sballo fine a sé stesso. C’è una domanda importante che la Beat Generation ha posto e alla quale ancora non siamo riusciti a rispondere – una domanda che i poeti ereditano di generazione in generazione, la stessa che Rimbaud pose a Verlaine un secolo prima e alla cui vertigine Verlaine reagì con un colpo di pistola. È una domanda che ha a che fare con il suono che ha la vita. E che potrebbe essere riassunta in una equazione, presa a prestito da Carlo Bo da tutt’altro contesto: «letteratura come vita». Fino a che punto è possibile sommare l’una all’altra, fino a cancellarne i confini? È possibile essere letteratura e che la letteratura sia la vita? Che qualcuno continui a farsene carico e a trasportare questa domanda in giro per il mondo, gettandola sulla faccia dei lettori come dimostra di fare una certa poesia di Addonizio, è la cosa più importante.

Garret Hongo

In una delle sue poesie, il poeta hawaiano Garrett Hongo spiega di avere compreso che «la mia voce doveva cantare la lotta dei miei antenati nelle coltivazioni di canna» (Alla tomba di Antonio Gramsci, Cimitero acattolico, Roma). Finalista al Premio Pulitzer (1989) con The River of Heaven e vincitore dell’Oregon Book Award con Volcano: A Memoir of Hawaiʻʻʻ i, Hongo non è certo nuovo sulla scena della poesia americana, seppure mai tradotto in Italia. Dire Hawaiʻʻʻ i per i più significa pensare subito a Pearl Harbor o a bellissime mete turistiche, dimenticando che le isole hanno una lunga tradizione locale alle spalle. Scrivere delle Hawaiʻʻʻ i da hawaiano significa, invece, raccontare la storia di una minoranza. Ma il progetto di Hongo è molto più articolato di così: il suo essere hawaiano ma figlio di genitori giapponesi è quanto basterebbe a presentare le Hawaiʻʻʻ i da un angolo visuale incrinato. Cercando di interrogare la contraddizione delle proprie origini, nella raccolta Coral Road Hongo decide di raccontare la storia del nonno materno Kubota. «E io non so distinguere la mia vita dalla tua» scrive in Kubota incontra Pablo Neruda per strada, dando prova che con la forma si può creare una armonia identitaria persino tra popoli che sono stati nemici.

 Quella di Hongo è una scrittura piana come le acque che si possono guardare dalla spiaggia in alcune giornate di sole, ma che insieme domanda a sé stessa se ciò che ha scelto di raccontare sia sufficiente a giustificarne la genesi: «Dicono che tu sia stato condannato a morte per aver scritto poesia, | che tu hai celebrato la Repubblica e i comunardi. | Io ho celebrato soltanto la mia famiglia e la ricchezza del mare. | La mia condanna, perciò, è solo un’eternità di attesa, senza sapere, | immaginando qualsiasi cosa – immaginando niente» scrive in Kubota a Miguel Hernández in paradiso, Leupp, Arizona, 1942. E ancora, in Frutto della passione: «tu non inganni nessuno tranne chi beve i tuoi inni radiosi». Sono dubbi che non hanno a che fare solo con la genesi poetica e con la questione della «letteratura come vita», ma con l’oggetto libro che deve essere proposto a dei lettori: fino a che punto si è legittimati a usare la propria storia come una lanternina con cui attirare il mercato? E ancora: una volta che gli occhi dei lettori sono puntati sopra le nostre righe, la luce con cui sono stati attirati da noi è in grado poi di mostrare loro qualcosa dietro il buio?

Israel Kamakawiwoʻʻ ole cantava la collettività delle isole Hawaiʻʻʻ i. Hongo sembra scegliere una strada diversa e anche negli altri lavori proposti il lettore si imbatte nella sua storia personale, che però è messa da subito in discussione: «Mi sono lasciato due figli e una moglie alle spalle – | importa?» (L’abitazione irreale: i miei anni a Volcano). È altrove invece a parlare una sorta di voce eremitica: «mi faccio strada lungo uno stretto sentiero | verso l’assoluto e la casa dei miei ultimi giorni, | un abbacinamento di luce che scrive tra le foglie e tra le erbe, | fremiti negli alberi che rabbrividiscono» (La casa a Volcano). Cercando di fare mia la lezione di Vivian Lamarque quando scrive che «Siamo poeti | vogliateci bene da vivi di più | da morti di meno | che tanto non lo sapremo», ho cercato di mettermi in contatto con Hongo a dispetto della distanza oceanica che ci separa. Quando lo aggiungo su Facebook, mi lascia un messaggio in bacheca: «Aloha, Antonio!» È uno dei saluti più profondi tra gli hawaiani. Ma è anche lo stesso saluto che si dà ai turisti, appena sbarcano o atterrano alle Hawaiʻʻʻ i. Come lettore, Aloha potrebbe significare entrambe le cose.

LAWRENCE JOSEPH

Come quella di Hongo, anche quella di Lawrence Joseph è una voce fuori dal coro: insegnante di legge alla St. John’s University School of Law, Joseph ha «il talento che ci vuole a farsi sentire» (Negro sabbiato) per raccontare l’esperienza di un americano con origini libanesi nato a Detroit, Michigan e trapiantato a New York. «Fuori casa il mio mestiere | è evitare di rispondere alle battute | sul mio naso o sul colore della pelle. | “Negro sabbiato” mi chiamano, | e calza a pennello: io sono | il negro dalla pelle chiara, | con gli occhi neri e un’aria | difficile da inquadrare – un’aria | d’indifferenza, un’aria assassina» scrive in Negro sabbiato, una poesia che denuncia la difficoltà di inclusione per chiunque abbia una doppia appartenenza negli States. Ma che insieme sa giocare con la tendenza che alcuni ‘emigranti’ hanno a resistere alla cultura del paese ospite, che si potrebbe riassumere in una «autosegregazione degli esuli, nel tentativo di ricostruire nel paese straniero la comunità precedente, quindi vivendo insieme agli altri esuli, continuando a parlare la lingua, frequentare le scuole, leggere i giornali, pregare nelle chiese, sinagoghe o moschee del paese di origine, e creando così le varie Little Italy, Germany o Russia, ciascuna con i suoi propri modelli di socializzazione»[5]. Ecco come mai Joseph prosegue passando in rassegna le abitudini quotidiane che la sua famiglia ha mantenuto nel paese ospite in una lunga sequenza didascalica aperta dall’affermazione «il Libano è ovunque». Una battuta che ci fa riflettere: ovunque in che posto? È questa una poesia che risponde alla promessa di Freeman a cui si è accennato in apertura: la solitudine che gli Stati Uniti sono capaci di fare provare. Lo fa con degli enjambement separati dai baratri di uno spazio bianco: «Non posso || stare solo». E, poco più avanti, con un verso che non ho potuto fare a meno di sottolineare a matita: «tutta la bellezza non viene sottolineata» (Ora la sera arriva rapida dal mare). È la solitudine della poesia oggi – seppure in America, come si è detto, abbia ancora un proprio posto nel continente. Significa «Urlare che niente | si può risolvere» (Woodward Avenue) in un mondo che, persino davanti alle evidenze del climate change, continua a credere che «L’essere più profondo non può che essere la brama» (E anche). Ciò che è interessante nella poesia di Joseph è la capacità di leggere gli Stati Uniti con una poesia che non si esaurisca nella sola questione della minoranza. Perché gli Stati Uniti sono anche la casa dei dati, in cui le nostre singolarità sono  circondate da mura fatte di algoritmi. E se all’improvviso uno dei muri è aperto da una crepa, è possibile sbirciare dentro ciò che neppure noi stessi sapevamo ancora di noi stessi. Di solito, quando avviene la scoperta, ne nasce uno scandalo enorme, come quello che ha seguito la denuncia di Edward Snowden o lo scoop sull’influenza esercitata da Cambridge Analytica sulla politica mondiale, in una America che si trasforma in una roccaforte in cui «Il flusso dei dati […] incamera || miliardi di corpi sul pianeta | in sé» (Una favola). A questo reame virtuale Joseph risponde con una tecno-poesia, utilizzando un linguaggio che simula l’hi-tech. E alla regola dei dati e della performatività a tutti i costi, con il ‘flusso’ della ispirazione beat, già incontrato nella poesia di Kim Addonizio: «A volte ci si deve arrangiare a improvvisare | prima di carburare» (Woodward Avenue).


John Freeman e Damiano Abeni (a cura di), Nuova poesia americana, Firenze, Black Coffee, 2020, pp. 192, € 13.


[1] https://www.barbaricoyawp.com/post/poesia-invito-alla-lettura-della-nuova-poesia-americana-vol-1

[2] Jack Kerouac, Mexico City Blues, a cura e trad. di Carla Coppola, Caarlo A. Corsi, Paola Franzeco, Roma, Newton Compton, 2011, op. cit., p. 13.

[3] Massimo Gaggi, Lawrence Ferlinghetti, l’intervista: «Io mai stato Beat. Il più grande? Pasolini», 16 marzo 2019, «Corriere della Sera», consultato il 14 aprile 2019 (https://www.corriere.it/19_marzo_16/lawrence-ferlinghetti-io-mai-stato-beat-piu-grande-pasolini-intervista-c473c5f4-4816-11e9-9178-69fe8668174c.shtml).

[4] Anna Wiener, La valle oscura, trad. di Milena Zemira Ciccimarra, Milano, Adelphi, 2020, cit., p. 22.

[5] Peter Burke, Espatriati ed esuli nella storia della conoscenza 1500-2000, trad. di Francesco Francis, a cura di Silvia Salvatici, Bologna, Il Mulino, cit., pp. 21-22.