Michel Ocelot è una colonna portante nel cinema contemporaneo, e quel nome che i nati, suppergiù, negli Anni Novanta associano al primo trauma della propria esistenza: essere stati piazzati davanti a Kirikù e la strega Karabà (1998) dai propri genitori, i quali pensavano si trattasse di un film per bambini in quanto di animazione. Impressione che veniva presto sfatata dalla pellicola, e dal racconto a cui dava voce: un bambino che riusciva a “manifestarsi” nella vita, scavando la propria strada fuori dal grembo della madre, e uno stupro di gruppo ai danni della cattivissima – in realtà solo ferita – strega Karabà. Il tutto in uno stile straniante, arcaico, fatto di tratti nitidi, blocchi di colore e figure appiattite. Che dice subito “C’era una volta”.
No. Michel Ocelot non ha proprio mai fatto film per bambini. Ha preferito lavorare al servizio della storia, quale che fosse, e della tecnica, sperimentando una vasta gamma di animazioni e aprendo nuove strade per l’animazione europea negli anni in cui lo stile americano della Disney dominava incontrastato. Paper cut, a silhouette (ombra nera su sfondo bianco o colorato), CGI: Ocelot ha l’occhio dell’artigiano e le mani leste di un bambino. E forse i suoi film, e l’amore per le storie, c’entrano proprio con la sua infanzia, spesa nell’Africa Occidentale dei griot: Guinea-Conakry per la precisione, negli ultimi anni del dominio francese sull’area (l’indipendenza fu dichiarata nel 1958; Ocelot era venuto al mondo nel 1943).
Lo scorso 6 maggio abbiamo avuto l’occasione di incontrare Michel Ocelot a Ravenna, per una tavola rotonda organizzata in occasione della terza edizione di Visioni Fantastiche – il festival di cinema per le scuole organizzato da Start Cinema nell’ambito del Piano Nazionale Cinema e Immagini per la Scuola e finanziato dal Comune di Ravenna – per fare il punto su chi è Ocelot dopo così tanti anni di carriera e chiacchierare del suo ultimo lavoro, Il Faraone, il selvaggio e la principessa (2022), proiettato al festival il giorno stesso.
Il Faraone, il selvaggio e la principessa è un film in tre parti, o meglio, un film composto da tre racconti, tenuti insieme dalla più classica delle situazioni da cantastorie: una voce narrante, tanti spettatori, qualche ora da riempire. Il primo episodio si svolge nelle terre dell’antico Egitto, e vede protagonista un giovane principe del Sudan che parte alla conquista del regno dei faraoni ispirato da un sogno e per poter prendere in sposa la sua amata, legata ai desideri di potere di una madre dispotica e possessiva.
Per il secondo ci spostiamo in Francia, più precisamente in Alvernia. Siamo nel Medioevo, tempo di castelli, regni e prigionieri. La storia è quella del “bel selvaggio” (nome del personaggio nella storia), un Barone Rampante cappa e spada pronto a riportare la pace in una terra subissata dalla guerra e a conquistare, anche qui, la sua amata. Per il terzo episodio voliamo infine nella Turchia dei sultani, dove, ancora una volta, amore e potere si intrecceranno per creare una fiaba di riconciliazione, sfruttando il topos del camuffamento-e-agnizione: un principe è costretto a vestire i panni di un popolano per aver salva la vita, ma proprio questa trasformazione sarà la chiave per conquistare l’amata principessa.
Il trittico è gioioso, leggero nelle sue conclusioni. È fatto per divertirsi e divertire, come conferma lo stesso regista. Senza però spostarsi mai da ciò che gli sta davvero a cuore: creare storie senza vincoli di realtà, dove tutto sia possibile. Ma soprattutto, Ocelot vuole avere piena libertà nella sua creazione.
«Mi piace raccontare le storie a modo mio, quelle che voglio io. Credo si sia sempre notato, e forse ancora di più adesso, con Il Faraone, il selvaggio e la principessa. Qui, per esempio, ho voluto non solo accostare diversi periodi e spazi storici arbitrariamente, ma anche prescindere dall’idea che una storia debba avere sempre una certa durata, che per i film, di solito, è 90 minuti. Ogni storia deve avere il suo tempo, proprio e insindacabile. Per questo non ne ho scelta una, ma tre, diverse sia per ambientazione che per origine».
Il primo episodio, quello del faraone, prende spunto da un’antica stele egizia conservata al Louvre.
«Da un po’ il Direttore del Louvre mi stava addosso, voleva che facessi un film ispirandomi al museo. A me non andava per nulla, e continuavo a dirgli di no. Poi però mi sono fatto tirare dentro all’esplorazione, e mi sono immerso nella sezione dedicata all’antico Egitto. Sono sempre stato un grande appassionato della cultura e della storia dell’Egitto dei faraoni, credo si noti anche nello stile della mia animazione [molto spesso su uno schiacciato bidimensionale di profilo, ndr]. Ho approfondito il periodo dei cosiddetti faraoni neri, ovvero una dinastia di regnanti sull’Egitto che provenivano dal Sudan, e che avevano risalito l’Africa fino a conquistare la capitale dell’Egitto. Ho abbozzato una storia, l’ho proposta agli egittologi del Louvre e, con la loro benedizione, sono andato avanti».
Per il secondo episodio, il “bel selvaggio”, assistiamo invece a un ritorno in Francia.
«Qui è successo qualcosa di strano, nel senso che di solito tendo a preferire storie ambientate in paesi lontani. Allora forse un po’ per sfida mi sono detto: facciamo anche questa, che è ambientata a casa mia. Proveniva da un vecchio libro di racconti, avevo segnato la sua pagina con un piccolo segnalibro: “da fare”. Così ho colto l’occasione, ma ho trattato la materia di partenza come se fossi ancora in Africa, a scoprire storie e popolazioni di cui non sapevo nulla. Vuol dire che ho viaggiato il territorio, ho studiato. Devo dire che in realtà non mi sento mai di parlare di qualcosa di “altro” o “estraneo”, in nessuno dei miei film. Perché a monte c’è proprio questo grande studio, e rispetto. I miei personaggi diventano ogni volta la mia famiglia. Qualcuno a volte mi dice che il mio approccio di narratore, che va a recuperare le storie locali e la tradizione del folklore, assomiglia al lavoro di un antropologo. Io capisco quello che vogliono dire, ma non mi trovo d’accordo. Perché l’antropologo, per definizione, va a osservare ciò che sente estraneo. Io uso una materia che sento vicina, affine. Allora forse sono un viaggiatore, un esploratore. Sì, questo posso decisamente dire di esserlo».
Dei tre episodi, quello del bel selvaggio è l’unico realizzato con colori scuri, utilizzando la tecnica delle silhouette (anche detta teatro d’ombre). Da non chiamare “ombre cinesi”, sottolinea Ocelot, e per un motivo molto semplice: non lo sono.
«La tecnica che noi chiamiamo “ombra cinese” non ha nulla di cinese, anzi, è nata in Occidente. Inoltre, le sagome che usano in Oriente come equivalenti al nostro teatro d’ombre sono molto diverse da quelle che conosciamo noi. Sono trasparenti, traslucide, quasi. Ciò permette tutta una diversa interazione della singola figura con il fondale e gli altri personaggi, perché si possono creare giochi cromatici e di sovrapposizione. Con la silhouette nera no, che proprio per questo ha il vantaggio di essere molto facile da lavorare. È anche molto economica, e infatti è una tecnica che avevo usato già in passato. Quando la proponevo, i produttori erano sempre molto contenti».
E il terzo episodio? Anche quello è tratto da una storia semi-vera?
«Sì e no. Il sì arriva per la sua ambientazione storica, che ci tengo sempre a documentare con precisione. È un episodio colorato, divertente, sfarzoso in un certo senso, proprio come lo era l’Impero turco nell’Ottocento, l’epoca in cui è ambientata la storia. Così possiamo dire che i vestiti fossero “veri”, che le strutture architettoniche fossero “vere”. Ma non la storia, di amore, magia e, soprattutto, lieto fine. Probabilmente una storia così non avrebbe funzionato veramente».
Si ferma un attimo, pensieroso. Alza lo sguardo nell’aria, come fosse già pronto a immergersi nel prossimo sogno.
«Ora invece sto lavorando al prossimo film. Sarà su un tema che mi sta molto a cuore, quello della droga, e dunque avrà un’ambientazione del tutto diversa da quella de Il Faraone, il selvaggio e la principessa. Sarà in una città francese, non necessariamente Parigi, ma un contesto riconoscibile, ecco. Avrà un’atmosfera cupa, e infatti i personaggi saranno brutti, disegnati male, tutti vestiti di nero. È una cosa che vedo sempre più spesso in giro, questa delle persone che si vestono di nero come impiegati delle pompe funebri, tutti uguali, e non mi piace per niente. Io amo il sole e i colori, detesto l’oscurità e la pioggia».
E infatti, è vero che i film di Ocelot traboccano di colore, dalle pennellate dense, quasi tempera di Kirikù alle tinte sofisticate e Belle Époque di Dilili a Parigi (2018), senza dimenticare la storia di Azur e Asmar (2006), principi nemici e dunque destinati a vestire colori diversi, in palette opposte. I colori parlano sempre, in Ocelot. Segnalano stati d’animo, schieramenti, contesti storici. Ma i suoi personaggi hanno anche altri tratti distintivi. Per esempio, parlano tutti in francese perfetto e scolastico.
«Anche questo me l’hanno fatto notare. Per me non è strano, è corretto. La cosa che distingue l’uomo dagli animali è la sua capacità di imparare e migliorarsi. E allora perché i miei personaggi non dovrebbero parlare una lingua corretta? Essere nella fiaba e nell’animazione, fuori da ogni pretesa di realtà, permette di fare anche questo. Poi, intendiamoci: se si tratta di originalità, io sono cosciente di essere un narratore ben poco originale. Funziono come un giocoliere, direi. Ho alcuni strumenti, alcuni blocchi, e li lancio in aria in forme diverse. Anche il folklore funziona così, per blocchi e temi. Dentro il calderone ci sarà finita anche un po’ della mia idiosincrasia di narratore, che ha cominciato a formarsi quando mi sono innamorato della storia di Robin Hood. Ecco, lì ho sentito qualcosa che mi parlava, per la prima volta. È successo anche con Lupin. E credo che dica tanto sui temi che mi piace trattare, e il modo in cui mi piace presentarli. Non mi stancherò mai di ripeterlo: non faccio film per bambini. E, se i bambini sono attratti dai miei film, è proprio perché non si sentono trattati come bambini. A nessuno piace essere considerato il “piccolo” in circolazione».
Ecco, parliamo di essere spettatori: che spettatore di cinema è Michel Ocelot?
«Oh, sono davvero terribile. In primis perché sono un criticone, un pignolo. Poi perché lavoro duramente sulle mie animazioni, e ormai alla sera ho solo voglia di andare a letto. Le poche volte che sono andato al cinema recentemente mi sono pentito subito, mi sono detto “ma che ci faccio qui a perdere tempo, dovrei essere a casa”. So che non è un ottimo esempio da dare, e non incoraggio nessuno a fare come me. Da giovane però ero diverso. Abitavo vicino alla Cinémathèque française e al cinema ci andavo molto, e con curiosità. In realtà del cinema forse, più che le proiezioni o la sala, mi hanno sempre affascinato le fotografie, quelle che immortalano i momenti del set. Le fotografie di Anita Ekberg nella Fontana di Trevi durante le riprese de La Dolce Vita (1960), per esempio. Le foto di Marlene Dietrich e Greta Garbo. Ah, e soprattutto, questo è molto importante: al cinema non guardo mai film dell’orrore. Su questo sono categorico».
E per il resto? Come osserva Ocelot il futuro del cinema?
«Sono ottimista. Con il digitale, per iniziare, ho un ottimo rapporto, permette di fare cose che prima non si potevano fare, o a volte di snellire alcune operazioni. Non lo temo, perché sono sempre io a disegnare, non il computer. E poi ci sono i ragazzi che mi hanno seguito in questi anni. Sono i miei figli, la mia famiglia. È bellissimo vedere che i miei film hanno avuto un impatto così duraturo, non me lo sarei mai aspettato. Per me l’importante è sempre stato creare, mettere le mani in pasta. E se questo farà parte della mia eredità, sono già soddisfatto».