Michele Mari è uno dei prosatori italiani più importanti degli ultimi tre decenni, considerato ormai un classico contemporaneo. È riuscito negli anni a convogliare un consistente successo di critica e pubblico, caso raro nella letteratura post-novecentesca per un autore spesso considerato iperletterario.

A partire dal suo esordio con il romanzo neo-gotico Di bestia in bestia (Longanesi, 1989; poi riscritto per Einaudi, 2013), seguito da Io venìa pien d’angoscia a rimirarti (Longanesi, 1990; Marsilio, 1998; Einaudi, 2016),  La stiva e l’abisso (Bompiani, 1992; Einaudi, 2002) e dalla raccolta di racconti Euridice aveva un cane (Bompiani, 1993; Einaudi, 2002) i suoi libri hanno sempre mantenuto una spiccata ricercatezza stilistica e un forte dialogo, passando per vere e proprie imitazioni, con la letteratura italiana ed europea del Sette-Ottocento e la tradizione espressionista del Novecento. Questa tendenza viene ulteriormente sviluppata nel cèliniano Rondini sul filo (Mondadori, 1999), il postmoderno Tutto il ferro della Torre Eiffel (Einaudi, 2002), nei racconti di Fantasmagonia (Einaudi, 2012) e in Roderick Duddle (Einaudi, 2014). Parallelamente Mari, anticipando la tendenza all’autofiction ormai assodata nel panorama italiano contemporaneo, ha proseguito una linea di racconti e romanzi che hanno come protagonista un suo alter-ego bambino, Michelino, e che esplorano la dimensione dell’infanzia riletta da un occhio adulto attraverso una lente di rimpianto e fascinazione feticistica e classificatoria per oggetti o circostanze epifaniche della propria gioventù: esempi degni di nota sono i racconti di Tu, sanguinosa infanzia (Mondadori, 1997; Einaudi, 2009), Verderame (Einaudi, 2007) e lo spiccatamente autobiografico Leggenda privata (Einaudi, 2017). Il suo ultimo romanzo è Locus desperatus (Einaudi, 2024).

Traduzioni di Euridice aveva un cane, Tu, sanguinosa infanzia, Tutto il ferro della Torre Eiffel, Verderame, Rosso Floyd (Einaudi, 2010) e Roderick Duddle sono state pubblicate in diverse lingue.i Le traduzioni inglesi You, Bleeding Childhood e Verdigris, curate da Brian Robert Moore per la casa editrice And Other Stories, sono tra le più recenti ad essere state pubblicate e si collocano in un momento di forte curiosità per gli autori italiani, soprattutto negli Stati Uniti. Per approfondire le fasi di contatto, traduzione e ricezione di Michele Mari in lingua inglese, abbiamo voluto conversare con il traduttore, che ringraziamo per la disponibiltà e la cura nelle sue risposte.

Brian Robert Moore è un traduttore letterario di New York. Tra le sue traduzioni dall’italiano all’inglese si contano Verdigris (Verderame) e You, Bleeding Childhood (Tu, sanguinosa infanzia) di Michele Mari, ma anche A Silence Shared (Tetto Murato) di Lalla Romano e Meeting in Positano (Appuntamento a Positano) di Goliarda Sapienza. Attualmente sta traducendo In Farthest Seas (Nei mari estremi) di Lalla Romano e Paradise Overload (Troppi paradisi) di Walter Siti. Per le sue traduzioni ha ottenuto diversi riconoscimenti, tra cui una National Endowment for the Arts Fellowship, una Santa Maddalena Foundation Fellowship e, per le sue traduzioni di Michele Mari, un O. Henry Prize e due PEN Translates Award. Le sue traduzioni e i suoi saggi critici sulla traduzione sono apparsi su The New Yorker, The Nation, Literary Hub, The Millions, n+1, McSweeney’s.


Prima di tutto, come è cominciata la tua attività di traduttore dall’italiano? Da una passione per la nostra letteratura? Quali sono i tuoi autori italiani preferiti?

Ho scoperto la letteratura italiana un po’ tardi, all’università; prima di allora avevo letto pochissimi autori italiani, ma in quegli anni ho sviluppato una vera passione. Dopo essermi laureato mi sono trasferito a Milano con l’intenzione di lavorare in editoria, e il mio primo lavoro è stato proprio quello di tradurre estratti letterari, i “sample” in inglese che servono agli uffici diritti e agli agenti per vendere i diritti dei loro libri all’estero. Poi ho lavorato per alcuni anni all’interno del gruppo GeMS, ricoprendo anche ruoli editoriali, ma continuando sempre a tradurre estratti. Diversi autori italiani hanno segnato il mio percorso da lettore, come Buzzati, Svevo, e anche Boccaccio, per citare alcuni esempi, ma sinceramente i miei scrittori preferiti adesso sono quelli che traduco: Michele Mari, Walter Siti, Lalla Romano. Non è casuale, ovviamente: mi sono dedicato a questi autori proprio perché mi piacevano tanto, li ho scoperti mentre vivevo in Italia e trovavo il fatto che le loro opere non fossero disponibili in inglese del tutto incomprensibile. Pensare di conoscere la letteratura italiana contemporanea senza aver letto Mari o Siti è semplicemente un’illusione secondo me. Per quanto riguarda Lalla Romano, che purtroppo non viene apprezzata a pieno dal pubblico italiano, credo che la sua prosa spoglia ed essenziale, in grado di trasformare pezzi della sua vita in poesia, sia in un certo senso la più moderna del Novecento italiano. Il libro che sto traducendo adesso, Nei mari estremi, che narra la morte di suo marito, è di una potenza devastante.

Per molti traduttori che scelgono di portare un autore per la prima volta al pubblico di un’altra lingua, l’incontro letterario con tale autore è stato un colpo di fulmine. Come hai conosciuto i libri di Michele Mari? Cosa ti ha colpito? Perché hai scelto di tradurre per primo proprio Tu, sanguinosa infanzia e Verderame?

Sì, è stato sicuramente un colpo di fulmine, e i primi testi ad avermi colpito sono stati proprio Verderame e alcuni racconti, specialmente in Tu, sanguinosa infanzia, quindi è stato quasi naturale iniziare con quei libri. E non dico come traduttore – perché come traduttore probabilmente sarebbe stato più facile iniziare con altre sue opere – ma come lettore: se questi sono i libri che mi hanno fatto entrare nel mondo di Michele Mari e mi hanno fatto innamorare della sua scrittura, spingendomi a leggere tutta la sua opera, perché non dovrebbe succedere così anche con altri eventuali lettori anglofoni? Sono due libri, insieme a Leggenda privata, in cui Mari mescola il fantastico e alcuni generi chiave come l’horror con fatti autobiografici o autofinzionali tratti dalla sua infanzia, un approccio che è quasi un genere letterario che appartiene del tutto a lui; ma più che altro sono libri che rivelano tutta la sua originalità e bravura come scrittore, e che invogliano a leggere ancora di più di questo autore.

Quindi da un lato speravo di iniziare un progetto che potesse andare avanti negli anni, ma allo stesso tempo volevo dare un senso molto preciso e ricco del mondo di Mari fin da subito. Visto che è già difficile arrivare a pubblicare una raccolta di racconti tradotta in inglese, non volevo perdere l’opportunità di far conoscere ai lettori anglofoni altri due racconti fondamentali che, nonostante facciano parte di Euridice aveva un cane, rispecchiano i temi principali di Tu, sanguinosa infanzia; in appendice all’edizione inglese di You, Bleeding Childhood appaino quindi anche i racconti The Soccer Balls of Mr. Kurz (I palloni del signor Kurz) e Eurydice Had a Dog (Euridice aveva un cane), rendendola un’edizione ampliata. Tra l’altro nel racconto Eurydice conosciamo per la prima volta la casa di Nasca (lì chiamata Scalna), dove poi saranno ambientati diversi libri di Mari, Verderame incluso, fino a trasformarla praticamente in un personaggio principale della sua opera. Adesso posso anche ammettere che Kurz, che naturalmente parla di infanzia e di collezionismo-feticismo, mi sembrava particolarmente promettente per pubblicazioni e riviste americane, proprio con l’idea di far arrivare la scrittura di Mari a più persone – infatti la traduzione è uscita su The New Yorker e ha vinto un O. Henry Prize, e questo vuol dire che verrà anche ripubblicata nell’edizione del 2024 di Best Short Stories, un’antologia prestigiosa e ampiamente riconosciuta. Detto così, a posteriori, sembra facile, ma ovviamente non è una cosa scontata, anche perché tra la ventina di racconti scelti per questa antologia solo due sono in traduzione, e penso che The Soccer Balls of Mr. Kurz sia il primo racconto italiano a essere selezionato in tutta la storia del premio.

Nell’ampia conversazione con Carlo Mazza Galanti, apparsa su Il Tascabile nel 2016, Mari cita come il libro in cui si identifica di più l’esordio Di bestia in bestia, tanto da averlo voluto rivedere e ripubblicare a distanza di 25 anni, e riconosce come i suoi libri “più riusciti” La stiva e l’abisso, Tu, sanguinosa infanzia e Fantasmagonia. Da lettore è d’accordo? Io personalmente amo molto anche Rondini sul filo, purtroppo mai ristampato, Tutto il ferro della Torre Eiffel, Verderame e Leggenda privata, che penso sia il più recente tra i suoi capolavori.

Sono solo parzialmente d’accordo, e vorrei far notare che Mari ha poi aggiunto Leggenda privata all’elenco dei suoi libri migliori nella versione più lunga dell’intervista pubblicata in Scuola di demoni. Più che altro ho un’opinione molto diversa su Verderame, che naturalmente ritengo uno dei suoi capolavori. In Verderame gli elementi autobiografici si sposano perfettamente con alcuni dei suoi generi letterari prediletti, e il risultato è una delle trame più avvincenti della letteratura italiana, con anche il finale più bello di tutti i libri di Mari; magari sembra banale parlare di trame avvincenti, ma non credo che un lettore passionale come Michelino, il protagonista del libro, sarebbe d’accordo. Forse quello che voglio dire è che quel romanzo prende certe ossessioni e le drammatizza in modo così naturale e coinvolgente che uno può anche non accorgersene, come fa tra l’altro con alcuni temi molto interessanti ma più insoliti nella sua opera, come quello dell’amnesia collettiva o politica. La drammatizzazione e quasi l’esternazione di questi temi accadono anche per il fatto che la persona al centro del puzzle narrativo non è Michelino stesso ma un altro personaggio, Felice; per questo non mi stupisce che Mari possa sentirlo meno “suo” rispetto ad altri suoi libri, perché in un certo senso la trama e il mistero sembrano prendere il sopravvento e muoversi quasi autonomamente a un certo punto del romanzo.

Come dicevo sono particolarmente affezionato ai suoi libri della serie autobiografico-fantastica sull’infanzia, Verderame, Tu, sanguinosa infanzia, Leggenda privata, poi come te, amo molto Tutto il ferro della Torre Eiffel, oltre a La stiva e l’abisso, che per me sono due libri intrisi di mistero. Considero Benjamin e Bloch, i protagonisti di Tutto il ferro, come due detective, anche se il mistero maligno al centro delle loro ricerche è la letteratura stessa, mentre i dialoghi tra i marinai nella Stiva sono di una bellezza rara, anche in quanto enigmatici – da paragonare alle conversazioni tra Marco Polo e Kublai Khan ne Le città invisibili di Calvino.

Nella stessa intervista Mari riassume così la sua Opera.

La mia impressione è di aver scritto un unico libro con diciotto varianti più che diciotto libri. [ora 20 N.d.R] […] Penso che ognuno per quanto possa mediare, stilizzare, cristallizzare, di fatto metta se stesso nella pagina, metta la sua vita, le sue pulsioni primarie, i suoi traumi, le sue ferite, i suoi lutti, le sue frustrazioni, le sue aspirazioni. [..] E tuttavia, per un principio di proporzionalità inversa, credo di avere sempre scritto libri nuovi sul piano strutturale, formale e stilistico. […] . È come se parlassi sempre della mia infanzia, del doppio, del rapporto tra natura e cultura, dei genitori, del sesso, del non-sesso, dell’amore, dell’atto mancato, insomma, di questi quattro cinque grumi o nuclei tematici, però ogni volta in un modo radicalmente diverso.

(Carlo Mazza Galanti, Tutti gli scrittori di Michele Mari in “Il Tascabile”, 14.12.2016)

I nuclei tematici sono sempre gli stessi ma tutto il resto è un organismo in movimento. A parte nei romanzi più imitativi o combinatori, nei quali lo stile è mutuato per esigenze di genere narrativo, periodo storico o voce, il Mari autobiografico tende spesso ad innalzare una sorta di “muro stilistico” là dove i ricordi si fanno più dolorosi o personali. È la ferita che continua a sanguinare in Tu, sanguinosa infanzia o Leggenda privata a rendere alcuni passaggi particolarmente ostici nella lettura e intenzionalmente complessi. Mari agisce in maniera inversamente proporzionale: quanto più l’oggetto narrativo lo tocca e lo ferisce, tanto più deve ergere una difesa, uno scudo stilistico che lo metta al riparo dal dolore e che ponga a debita distanza il lettore. Da lettore e da traduttore, ti convince questo punto di vista? Come hai gestito i cambi di registro e lo stile (penso soprattutto al lessico e alla costruzione dei periodi) dall’italiano all’inglese?

Questa dinamica c’è, ma non so se definirei lo stile sempre uno scudo, perché spesso è un mezzo per sondare il dolore in modo più profondo ed esaustivo, rendendolo più vivo al lettore. Penso per esempio a La freccia nera in Tu, sanguinosa infanzia; quando Michelino scopre che suo padre gli ha regalato lo stesso libro che lui ha appena letto, seguono pagine e pagine in cui esprime la sua ansia e il suo dolore per aver inconsciamente rovinato questo regalo inaspettato, tramite una scrittura abbastanza alta, apparentemente ricercata. Proprio lo stile alto e quasi esagerato ci trasmette un dolore altrettanto esagerato, perché gli eventi narrati altrimenti rifletterebbero solo una coincidenza un po’ buffa se non banale. Allo stesso tempo ci sono anche racconti come Laggiù, che è praticamente una serie di aneddoti molto personali – dolorosi ma anche molto comici – raccontati in maniera molto diretta rispetto al suo standard, specialmente rispetto al resto della raccolta.

Ho letto e riletto tanti testi non contemporanei, soprattutto ottocenteschi, mentre traducevo questi libri di Mari; naturalmente diversi dei suoi autori prediletti sono anglofoni, quindi ricreare gli elementi anticheggianti di Mari in inglese prendendo a volte una parola da Melville o un’espressione da Poe rappresentava una sorta di “ritorno a casa” per il testo. A differenza di un libro come Io venìa pien d’angoscia a rimirarti, che è scritto esclusivamente in una lingua datata, questi sono due libri più impuri, possiamo dire, con vari registri, quindi la difficoltà stava anche nel trovare il giusto equilibrio. Volevo cercare di mimare il vampirismo letterario di Mari, assorbire le sue influenze e vedere quanto potessero finire, in modo naturale e non troppo forzato, nella traduzione. Per un racconto come Otto scrittori, ovviamente era necessario leggere questi otto autori e i loro libri di marinai e di pirati non solo per cogliere i riferimenti e le citazioni (che ho scoperto sono a volte anche nascoste nel testo, cioè non messe tra virgolette, specialmente quando si tratta della traduzione pavesiana di Moby Dick), ma anche per ricreare le loro voci e “fargli il verso”, come dice Mari. Quando avevo ancora pochi mesi per lavorare sulla traduzione prima della consegna, ho iniziato pure ad ascoltare tanti audiolibri, così queste voci potevano continuare a entrarmi in testa in modo ancora più subliminale. In quel periodo stavo a Roma, e se adesso chiudo gli occhi e mi immagino in quell’appartamento dove vivevo allora, mi sento in una barca per tutti i racconti marittimi che ho ascoltato in quelle stanze.

Nella tua postfazione a You, Bleeding Childhood spieghi la natura di alcuni piccoli cambiamenti del testo operati con la collaborazione dell’autore per rendere maggiormente comprensibili al pubblico anglofono alcuni passaggi. Mi riferisco in particolare alla necessità di “traduzioni di traduzioni”: i doppi titoli, originale e calco dalla traduzione italiana in The Covers of Urania (Le copertine di Urania), gli incipit divergenti delle due traduzioni di The Black Arrow (La freccia nera) di Stevenson che fanno scaturire l’ossessione filologica di Michelino, la traduzione pavesiana di Moby Dick in Eight Writers (Otto scrittori). Ci potresti dire di più riguardo a questo processo e ad eventuali altre divergenze testuali tra l’originale e la sua traduzione?

Più che per facilitare la comprensione, alcuni aggiustamenti sembravano necessari per mantenere la coerenza del testo in inglese. Specialmente perché in alcuni casi si trattava di ritradurre in inglese riferimenti letterari precedentemente tradotti – sia nel senso letterale del termine, sia in senso figurato – dall’inglese all’italiano. Per esempio, le due frasi che Michelino analizza ne La freccia nera, che sono gli incipit di due traduzioni italiane del romanzo The Black Arrow di Stevenson, dovevo letteralmente ritradurle in inglese. In quanto “traduzioni” (dall’inglese all’inglese) nessuna delle due poi doveva essere troppo simile all’originale o troppo corretta rispetto all’altra, perché altrimenti il gioco non funzionava più. Però, dato che un’originale esiste davvero in inglese (a differenza dell’italiano) ho avuto l’idea di mettere questa frase nella sua vera forma alla fine del racconto: in You, Bleeding Childhood quindi la frase vera di Stevenson è staccata dalla narrazione, conclude il racconto come le due frasi “tradotte” che lo aprono, e così con questa rivelazione finale si chiude del tutto il cerchio. Senza riconoscere in qualche modo la frase originale il racconto mi sembrava un po’ incompleto in inglese; poi quest’aggiunta portava anche all’ennesima potenza l’idea già presente nel racconto, che tradurre è un processo che potrebbe andare avanti all’infinto, e che ogni traduzione è un libro originale a sé. Ho proposto quest’aggiustamento a Michele e l’ha approvato. Quindi appunto volevo mantenere la coerenza dei racconti nel modo più naturale possibile, facendo considerazioni che avrebbe fatto Mari stesso se li avesse scritti in inglese. Nel caso di Otto scrittori con i suoi riferimenti a Moby Dick, Mari cita più volte la traduzione di Pavese e fa parlare Achab come quel personaggio ha sempre parlato in italiano; solo che la voce di Achab in italiano che creò Pavese è un po’ troppo moderna rispetto a quella dell’Achab originale, per cui lì dovevo essere ancora più anticheggiante di Mari per rendere il personaggio riconoscibile in inglese. Per esempio, l’Achab anglofono usa una seconda persona arcaica che non si usa più in inglese (thee, thou), usanza linguistica che lui e gli altri personaggi quaccheri nel libro hanno preso dalla Bibbia di re Giacomo, una traduzione del Seicento.

In Verderame sono stati necessari ancora più aggiustamenti, innanzitutto per i giochi di parole. Se Michelino inventa un sistema di mnemotecnica basato su associazioni che sono molto immediate per il giardiniere Felice, anche in inglese queste connessioni linguistiche e sonore dovevano essere altrettanto immediate, altrimenti il lettore sarebbe rimasto escluso dal gioco. Ti posso citare qualche esempio: mentre nell’originale Felice si ricorda il nome di Nasca grazie al bambinello di un presepe e quindi dalla parola “nascita”, nella traduzione il nome del paese viene ricordato dalla parola NASCAR scritta su una macchinina Mercury (giusto per rimanere nell’immaginario di Mari, visto che le Mercury sono un’ossessione ricorrente); invece di ricordarsi la parola “salsiccia” grazie al sale e alla foto della donna più grassa del mondo (sal, ciccia: salsiccia), guarda un barattolo di sugo e una foto della donna più vecchia del mondo (sauce, age: sausage). Ci sono tanti piccoli esempi del genere che si accumulano nel libro, ed ovviamente era fondamentale che Michele approvasse tutte le mie soluzioni. Invece mi stupiva, e mi stupisce ancora, che fosse stato possibile rimanere così fedele all’originale senza rovinare l’intreccio linguistico più complesso nel libro, che riguarda il mistero della casa e del passato di Felice, e che implica sia un anagramma, sia il soprannome significativo di un personaggio morto. Era importante per me non perdere la magia e la disinvoltura narrativa del testo, ricreando quest’intreccio in inglese in modo che coinvolgesse direttamente il lettore anglofono, invece di spiegarlo tramite delle note.

Un altro scoglio dal punto di vista della traduzione è stato senza dubbio la resa in inglese del dialetto lombardo del giardiniere Felice in Verderame. Una parte consistente del romanzo è formata da dialoghi tra Michelino, un bambino curioso e precoce e Felice, giardiniere analfabeta di età e origini imprecisate. Nelle interazioni tra i due appare subito una forte opposizione linguistica tra l’italiano colto e preciso del primo e il dialetto (più letterario che realistico, ma genericamente “lombardo”) del secondo. In un intervento sul blog di traduzione Asymptote parli della scelta di non voler interrompere l’immersione del lettore con note a piè di pagina e quindi della decisione di cercare di rendere un equivalente inglese del dialetto, attingendo a forme reali o stilizzate, anche legate alle tue esperienze biografiche, così come il dialetto di Felice è legato a quelle di Mari. Come si è svolto il lavoro in questa traduzione?

Sì, forse prima di tutto va spiegato che spesso l’approccio dei traduttori anglofoni nel tradurre i libri italiani che hanno personaggi che parlano in dialetto è, possiamo dirlo, abbastanza avverso al rischio; il dialetto o viene lasciato così com’è nell’originale e messo in corsivo (come per dare un po’ di “sapore culturale” ma lasciando il senso a tutti gli effetti incomprensibile per il lettore anglofono) o viene tradotto in un inglese standard, cancellando le differenze linguistiche che esistono all’interno dell’opera originale. Ovviamente quando si tratta di un autore che tiene molto all’invenzione linguistica, e che è particolarmente amato per quest’aspetto dei suoi libri, questi due approcci sono insufficienti. Verderame è un romanzo fantastico, e il dialetto parlato da Felice non è realistico, perché è molto letterario ed è più milanese che varesotto, mentre il personaggio probabilmente non è mai stato a Milano in vita sua. Quindi ho usato un idioletto che secondo me si adattava benissimo al personaggio, e che per me era a tutti gli effetti una voce vera che, seppure non realistica, rimaneva comunque quella che sentivo in testa quando m’immaginavo il personaggio in inglese. Per motivi sia autobiografici che riguardano la mia famiglia e le mie esperienze personali, sia per suggestioni e influssi letterari che sono molto presenti nel romanzo (la letteratura gotica, il folklore, ecc.), questa voce ha tanti tratti irlandesi – non sto facendo riferimento al gaelico, ma ai vari tipi di inglese parlato in Irlanda, il così detto “Hiberno-English”. È stata una restrizione autoimposta ma anche una liberazione, perché con questo modo di parlare il Felice anglofono diventava altrettanto espressivo; era più facile trasmettere il senso delle sue frasi usando regionalismi, seppure stilizzati, piuttosto che un inglese standard. Ho spiegato questi legami personali e letterari nella mia nota alla traduzione, e infatti è una nota abbastanza lunga, quindi non li elencherò tutti qua, perché necessiterebbero di tutta una conversazione a parte.

In ogni caso questo era anche un modo di tenere la lingua di Felice molto distinta da quelle di tutti gli altri personaggi del libro, visto che è l’unico a parlare in dialetto nell’originale, e considero questa distinzione essenziale anche dal punto di vista narrativo. Poi, tenendo conto che la differenza tra questi modi di parlare in inglese è comunque meno marcata rispetto a quella tra un italiano standard e un dialetto lombardo, ho usufruito anche di tante elisioni e parole troncate, per dare l’impressione che mentre Felice perde la memoria e dimentica tantissime parole, anche la sua lingua si stia in qualche modo sgretolando, o perdendo pezzi di sé, come dice Michelino. Alla fine mi piaceva pure l’idea che questa sua voce fosse un po’ una proiezione mentale di Michelino, forse un miscuglio di vernacoli incontrati nei romanzi, e trovo questa ipotesi surreale piuttosto plausibile per diversi motivi. Per esempio, oltre al fatto che Michelino vede tutto il mondo attraverso i libri che ha assorbito, nel romanzo non si legge mai una conversazione tra Felice e un altro personaggio che non sia Michelino – così al lettore viene da chiedersi che voce sentirebbero le altre persone. A tal proposito, Michele mi ha spiegato che il Felice vero, quello che conosceva da ragazzino e che ha ispirato il personaggio del libro, parlava un idioletto tutto suo un po’ privo di senso. Che nel loro rapporto ci sia un elemento di ventriloquismo, appunto, viene suggerito abbastanza esplicitamente nel libro, specialmente nelle ultime pagine.

Per i traduttori di letteratura contemporanea si pone quasi sempre la questione dell’incontro fisico e della comunicazione diretta con l’autore. Come è stato conoscere finalmente Mari? Avete delle letture preferite in comune? Avete lavorato molto insieme?

Non avevo mai capito quanto potesse essere prezioso tradurre un autore vivente prima di lavorare sui libri di Mari. Poi, come abbiamo già detto, a volte era proprio necessario aggiustare il testo per farlo funzionare, o soprattutto per farlo “vivere” in inglese. Non so se avrei osato fare certi aggiustamenti senza poterne parlare con lui e ricevere la sua approvazione, o almeno non li avrei fatti a cuor leggero. Queste conversazioni sono state svolte praticamente solo per email. Michele è sempre stato estremamente onesto: se un’idea non gli andava bene me lo diceva, quindi ero sicuro che quando approvava una mia soluzione questa lo aveva davvero convinto. Poi l’ho conosciuto di persona proprio a Nasca. È stata un’esperienza unica, non solo come traduttore ma anche come lettore. Avevo già passato quasi un anno intero immaginandomi in quella casa mentre lavoravo sulle traduzioni, quindi mai ho avuto la sensazione di entrare in un libro come quel giorno. Ho perfino fatto qualche piccolo cambiamento alla traduzione dopo aver visto la casa e il giardino dal vivo, ripensando a com’era tutto strutturato, ecc. Su un livello personale, sono stato accolto molto calorosamente, e anche questa è stata un’esperienza unica e emozionante, trattandosi sempre di uno dei miei eroi artistici.

Gli interessi letterari in comune sono sicuramente tanti, ma c’è un altro tipo di legame, ovvero una versione di me stesso che trovo nei suoi libri, che è ancora più importante. Di nuovo mi viene da dire che forse non avrei osato così tanto nella traduzione – e forse non avrei avuto il coraggio di intraprendere questa impresa – se non mi sentissi già così partecipe a Verderame e ai suoi racconti. Quando avevo tradotto i primi racconti, ancor prima di trovare un editore per i suoi libri, e li avevo fatti leggere ad alcuni cari amici anglofoni, mi hanno chiesto, un po’ per scherzo ma forse neanche troppo, se questo Michele Mari l’avessi inventato io; i testi sembravano così in linea con certe mie fisse letterarie e così affini al mio senso di umorismo. Insomma erano increduli che un autore così perfetto per me come lettore potesse esistere davvero.

Visto che queste sono le prime traduzioni in inglese di questo autore, come è stata finora la sua ricezione tra i lettori di lingua inglese? Ci sono temi o particolarità che hanno risuonato in maniera preponderante?

Finora la ricezione critica è stata molto positiva, devo dire, con recensioni estremamente elogiative. Ma più che altro continuano a stupirmi le reazioni entusiaste dei lettori. Una particolarità che ha colpito molto è sicuramente il mistero che anima Verderame, e che lo rende a tutti gli effetti un page-turner; poi tanti, arrivati alla fine, vogliono subito discutere del finale, mi chiedono pure la mia interpretazione o una chiave di lettura. Mi piace parlarne ma in ogni caso spiego che la mia è solo una delle possibili interpretazioni, e uno dei motivi per cui il romanzo è così bello e rimane con te dopo averlo finito è proprio perché il mistero continua.

Mi sembra che a volte la difficoltà stia più nel far arrivare questi libri ai lettori che nel farli apprezzare. Nonostante l’incremento di interesse, o forse proprio a causa di questo, la visione della letteratura italiana nel mondo anglofono è diventata abbastanza stereotipata negli ultimi anni, con un’enfasi su un realismo a volte un po’ melodrammatico. Mari ovviamente non c’entra niente con questi stereotipi. Come dicevo ci sono stati già successi sorprendenti per un autore in traduzione – con una scrittura non proprio facile – finora sconosciuto, ma non mi accontento: voglio che la sua opera riceva tutta la considerazione che merita.

Per concludere, vorresti tradurre altri libri di Mari? Se sì, quali? Ci sono altri autrici o autori italiani sui quali stai lavorando o vorresti lavorare?

Sicuramente. Va detto che ci sono libri che si presentano fin da subito come più traducibili; Verderame, per tutti i motivi che abbiamo detto, sembrava un libro poco traducibile se non addirittura intraducibile, quindi averlo già fatto mi dà un senso di coraggio. Sulla traducibilità, non avrei dubbi per quanto riguarda Tutto il ferro, che è anche tra i miei preferiti. Sarebbe bello far uscire in inglese uno dei suoi romanzi meno esplicitamente autobiografici, come Tutto il ferro appunto, per far capire quanto è ampia e varia la sua opera, nonostante i temi ricorrenti. Vorrei anche cimentarmi prima o poi in uno dei suoi libri dove il linguaggio deve rigorosamente rifarsi a un altro periodo letterario-storico. Queste, diciamo, restrizioni le ho sperimentate un bel po’ con la voce di Felice, che è un caso particolare, ma l’esempio più significativo è Io venìa pien d’angoscia. Però per girare la domanda in modo un po’ contorto: se non potessi tradurre più niente, il libro che mi dispiacerebbe di più non aver tradotto sarebbe Leggenda privata, e non solo parlando di Mari ma di libri in generale. Sono molto legato agli scrittori che traduco – Mari, Romano, Siti – e vorrei andare avanti a tradurli, ma non dubito che anche altre opere di scrittori che non ho ancora letto mi stupiranno in futuro. I tre citati sono tutti autori abbastanza ossessivi, e anch’io porto una buona dose di ossessione nel mio lavoro da traduttore. Sono processi molto lunghi, difficili anche, ma mi ritengo fortunato di poter dedicare il mio tempo a scrittori così meritevoli.


i In francese, tradotti da Jean-Paul Manganaro:
Tout le fer de la Tour Eiffel, Le Seuil, 2005
Pink Floyd en rouge, Le Seuil, 2011
Les Limaces françaises (Verderame), Le Seuil, 2013
Toi, sanglante enfance, Ypsilon Éditeur, 2019
In spagnolo:
Todo el hierro de la torre Eiffel, tr. María Jesús Fenero, Seix Barral, 2005
Rojo Floyd, tr. Eugenia Leva, La Bestia Equilátera, 2013
Verdigrís, tr. Carlos Gumpert, Muñeca Infinita, 2024
In inglese, tradotti da Brian Robert Moore:
You, Bleeding Childhood, And Other Stories, 2023 – con due racconti tratti da Euridice aveva un cane
Verdigris, And Other Stories, 2024
In tedesco:
Mr. Pink Floyd, tr. Birte Völker, Bertelsmann, 2011
Alles Eisen des Eiffelturms, tr. Andreas Rostek, edition.fotoTAPETA, 2023
In rumeno, tradotti da Cerasela Barbone:
Pink Floyd în roşu, Polirom, 2011
Roderick Duddle, Polirom, 2016
In olandese:
Al Het Ijzer Van De Eiffeltoren, tr. Marieke van Laake, Meulenhoff, 2004
In svedese:
Eurydike hade en hund, tr. Johanna Hedenberg, Italienska Kulturinstitutet, 2023